Quei vaccini all’università
Perché è iniquo il piano Moratti
di Tito Boeri e Roberto Perotti
Le 14 università lombarde (tra le quali quella di chi scrive, la Bocconi) hanno raggiunto un accordo con la Regione per vaccinare docenti e personale tecnico amministrativo. I rettori ringraziano «l’assessore Letizia Moratti per aver colto subito la richiesta di tutti i Rettori della Lombardia»; l’assessora Moratti è felice per l’accordo raggiunto con gli atenei, «da sempre cuore pulsante e fiore all’occhiello del nostro territorio». Che bel quadretto.
Crediamo che chiunque abbia letto questa notizia si sia chiesto: “e i docenti di asili, scuole materne, elementari, secondarie di primo e secondo grado, e relativo personale?”. Fino a sabato scorso né i dirigenti scolastici (ad eccezione di quelli dei centri di formazione professionale), né i sindacati degli insegnanti avevano ricevuto alcuna informazione dalla Regione Lombardia.
Sono poi stati convocati per una riunione stamattina.
Nell’ultima settimana c’è stato un aumento dei contagi del 31 per cento tra gli alunni e del 39 per cento tra gli operatori delle scuole nel territorio dell’Ats di Milano. La fascia 13-19 anni ha ora la più alta incidenza di Covid in Italia. I docenti delle scuole hanno un’età media di 55 anni e vivono a contatto con gli alunni in spazi ristretti anche cinque ore al giorno; i docenti universitari insegnano poche ore alla settimana. Nelle scuole materne non si indossano le mascherine, nelle università sempre e comunque. La didattica a distanza ha effetti disastrosi su molti studenti delle scuole; è una soluzione non ideale ma accettabile per gli studenti delle università.
Vi sono motivi epidemiologici per privilegiare i docenti universitari? A dieci anni si è probabilmente meno contagiosi che a venti, ma non c’è evidenza empirica di una sostanziale differenza di contagiosità tra un sedicenne e un ventenne. È vero che i bambini non vanno ai rave party sulla Darsena, ma ci vanno i sedicenni quanto i ventenni.
L’8 febbraio un documento del Comitato Tecnico Scientifico indicava tra i gruppi prioritari per la seconda fase, dopo gli individui con comorbidità e gli anziani, “il personale scolastico e universitario docente e non docente, le Forze armate e di Polizia, e i setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità e il personale di altri servizi essenziali”. In nessuna parte del documento si fa una distinzione tra personale scolastico e universitario. Né ci risulta che l’indicazione di privilegiare le università sia venuta in seguito dal Cts. Altrove si è partiti in parallelo o prima nelle scuole e poi nelle università.
Si potrebbe obiettare che ci sono pochi vaccini disponibili: i docenti universitari sono meno numerosi di quelli scolastici, meglio mettere in sicurezza almeno le università. Ma è un argomento che non tiene: non c’è alcuna superiorità morale di un ateneo su una scuola. Se proprio si vuole seguire questo ragionamento (peraltro molto pericoloso), allora si dica che si vaccinano interi istituti alla volta: che siano istituti scolastici o universitari è irrilevante.
La realtà è che la conferenza dei rettori lombarda ha esercitato una pressione fortissima. Ognuno tira l’acqua al proprio mulino, ma forse in un momento come questo i rettori avrebbero potuto chiedersi: “Siamo veramente tra le attività più rischiose”? E non c’era davvero nessun motivo di dare uno schiaffo alla dignità (e alla sicurezza) dei docenti delle scuole lombarde lasciandoli nel buio mentre si inneggiava all’accordo con «il cuore pulsante e fiore all’occhiello del nostro territorio».
Una ragione in più per avere un piano nazionale sui vaccini con criteri uniformi e trasparenti. Si eviterebbe anche il paradosso dei tantissimi docenti pendolari tra una Regione e l’altra che non vengono vaccinati da nessuna parte.