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Repubblica: A colloquio con Remo Bodei filosofo pendolare tra Pisa e la California

In America ho trovato una maggiore passione per la ricerca della verità magari anche ingenua

05/08/2008
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la Repubblica

"In America ho trovato una maggiore passione per la ricerca della verità magari anche ingenua"
"C´è un grande interesse per il Rinascimento, tra i moderni si studia addirittura Gioberti"
PISA

L´assunto di partenza è semplicissimo: sempre più italiani di spicco vivono in parte o in toto all´estero. Senza contare coloro che, pur rimanendo a casa propria, esportano nel mondo la propria competenza e il proprio talento negli ambiti più diversi: dalla filosofia alla scienza all´arte. Ebbene: esiste, nelle differenti discipline, una specificità italiana? Un suo valore aggiunto? E se esiste, viene percepito come tale? Più in generale, come è vista l´Italia fuori d´Italia? Come è giudicata?
Mosso da tali, elementari domande, ho scelto per questa breve perlustrazione estiva quattro figure di rilievo della scena contemporanea: un filosofo, un artista visivo, un compositore e un uomo di teatro e cinema. Ad aprire la serie è Remo Bodei, che il collega Richard Rorty definì «il meno peninsulare dei filosofi italiani», per sottolineare la sua naturale propensione internazionale: «e io per scherzo gli risposi che, essendo sardo, il mio compito era più facile. Una volta attraversato il mare, per noi sardi tutto il mondo è paese». Come che sia, il rapporto di Bodei con l´accademia internazionale è sempre stato intenso: Germania, Spagna, Inghilterra, Canada. E, ormai da molti anni, gli Stati Uniti. Dapprima con l´insegnamento a New York, poi all´UCLA di Los Angeles: fino al 2006 dividendosi equamente con l´università di Pisa; da quando ha abbandonato l´insegnamento in Italia, non in più in qualità di "visiting professor" ma semplicemente di professore. «Il pendolarismo però è rimasto lo stesso: sei mesi là, sei mesi qua. E come Proserpina, non ho ancora scelto quali siano i veri inferi».
Lavoratore instancabile, autore di una mole immensa di volumi che spaziano in periodi storici e ambiti tematici i più diversi, Bodei ha il doppio merito di tenere la barra dritta su un pensiero laico inteso quale esercizio della razionalità critica attorno ai temi cruciali del discorso pubblico, senza tralasciare - al contempo - un´indagine altrettanto rigorosa di quei fenomeni della vie sauvage (dal variegato mondo delle passioni al delirio clinico), solitamente abbandonati dal pensiero a se stessi. «In questa mia impostazione non credo di essere stato infedele alla nostra tradizione filosofica. Di essa mi piace conservare lo scrupolo filologico nell´interpretazione dei testi, l´attenzione ai particolari, il gusto per una ricerca che unisca ragione e immaginazione. Aspetti, questi, che rimangono in secondo piano nel mondo anglosassone, dove perfino gli studenti del primo anno trattano i classici senza alcun timore reverenziale. Non li mettono su un piedistallo: chiedono subito se è vero o falso quello che hanno detto. In un certo senso fanno bene, ma, in compenso, non si curano di tarare storicamente i concetti e spesso finiscono così per giungere a conclusioni banali. Ma per tornare alla nostra tradizione filosofica, mi ha sempre colpito la sua vocazione civile. Non politica, civile. Dall´Umanesimo ad oggi abbiamo avuto comuni e stati regionali forti in contrasto con uno Stato nazionale che non c´era o, quando si è costituito, si è mostrato debole nei confronti delle altre potenze e della Chiesa cattolica. I filosofi italiani hanno quindi svolto un ruolo di pedagoghi politici, non rivolgendosi, come succedeva nella scolastica, ad altri filosofi o agli studenti, ma alle classi dirigenti tout court. Si pensi a Machiavelli o, sul versante scientifico, a Galilei. D´altronde, forse proprio a causa della prevalenza della Chiesa cattolica, manca in Italia una filosofia dell´interiorità di tipo pascaliano. Parallelamente, dopo Galilei, non abbiamo più avuto una approfondita riflessione sulle scienze, a parte lodevoli eccezioni novecentesche. La filosofia italiana, intendo dire, ha dato il meglio in quelle zone in cui non domina una logica rigorosa di tipo cartesiano. Quindi nella concezione della politica (con Machiavelli o Gramsci), della storia (con Vico o Cuoco), dell´estetica (con De Sanctis o Croce). In sostanza, la filosofia italiana è una filosofia della ragione impura, ma anche una filosofia civile, che non sempre ha avuto il coraggio dello scontro frontale con le autorità religiose e politiche. Certo, c´è stato Giordano Bruno, ma non abbiamo avuto l´analogo del Pascal delle Provinciali, né un Voltaire. E il conformismo, il compromesso e la "rivoluzione passiva" sono stati spesso vincenti».
Questo sul versante delle persistenze. E invece cosa accade in ordine ai mutamenti? Come si presenta, oggi, la scena filosofica italiana? «Da un lato, fortemente contaminata dal rapporto coi media; dall´altro, molti miei colleghi sono diventati meri concessionari di filosofie straniere. Il che ha certamente allargato il respiro internazionale del dibattito, ma ha anche indebolito le nostre peculiarità, e pur favorendo la crescita di una risonanza all´estero, che non si avvertiva dai tempi di Croce, ha determinato un appiattimento verso le tesi altrui».
D´altronde, è pur vero che la nostra tradizione più riconosciuta, quella dello storicismo, presentava falle da tutte le parti. «Non v´è dubbio. È quello che chiamo lo storicismo invertebrato: la filosofia come mera narrazione di una successione di eventi, una specie di fila indiana di opinioni: cosa ha veramente detto Tizio, cosa ha veramente detto Caio».
Invece sul versante anglosassone, e segnatamente americano, cosa succede? «C´è una maggiore passione per la ricerca della verità, magari con tutte le ingenuità a cui accennavo prima. Ma il migliore lascito della scolastica continua: continua la passione per il rigore logico, il desiderio di non fare discorsi vaghi, di mettere alla prova tutte le affermazioni, sia dal punto di vista della coerenza interna del discorso, sia dal punto di vista dei controlli empirici. E tutto ciò accade in uno scenario radicalmente modificato rispetto a quando nelle università americane trionfava la filosofia analitica. Del resto, se soltanto guardo alle facce dei miei studenti, capisco che davvero Los Angeles è la porta dell´Oriente: lo scorso anno, di ventisei, solo sei erano "caucasici", come dicono lì. Ovvero bianchi americani. Il grosso era composto da latinoamericani e soprattutto da orientali».
E questo progressivo spostamento a est della popolazione studentesca, ha modificato il panorama degli autori di riferimento? Intendo dire, tra i classici circolano anche Confucio e Buddha? «Nei dipartimenti di filosofia questo ingresso è lento. Diversamente da quanto accade tra gli antropologi e i geografi, molto più ricettivi. C´è, piuttosto, un ritorno evidente dei classici occidentali. A lungo l´unico filosofo considerato "per bene" era Kant: oggi circolano nuovamente Hegel, Leibniz, Descartes. E per venire agli italiani, c´è grande interesse per il Rinascimento. Oltre che per Galilei, o per Gramsci. Si studia addirittura Gioberti, che pure in Italia non trova ascolto».
Più in generale, come è visto il nostro sistema-paese? «Al modo di sempre. Nel sentimento comune la nostra nazione è composta da gente simpatica e inventiva, con alcuni geni e molta corruzione. La serietà da noi non sarebbe di casa, ma in compenso siamo considerati maestri del lusso. Non a caso la maggior fortuna è legata alle solite cose: le Ferrari, la moda, il cibo».
Beh, anche gli americani potrebbero uscire da questo usurato cliché. Qualcosa in più c´è: nel bene e nel male. A cominciare, ahimé, da un laboratorio politico di un certo interesse: quello del populismo berlusconiano. «Non c´è dubbio. La nostra società, particolarmente fragile e dunque particolarmente esposta, si offre come luogo ideale di processi che si impongono su scala planetaria. Intervengono molti fattori nella riformulazione delle regole del gioco politico: l´incertezza del futuro, la scarsità crescente di risorse, il terrorismo. Il potere tende ad avere mano libera, all´impunità. Non tutto però si riduce a manipolazione dall´alto: c´è anche la connivenza dal basso. Si sta affermando un´opinione pastosa, informe, plasmata dai nuovi psicagoghi al potere. In fin dei conti, la parola massa viene dal greco maza, pasta, ovvero dalla materia che si modella. E la parola folla rimanda alle fulloniche, ovvero alle antiche "lavanderie" dove si strizzavano i panni. Forse il termine manipolazione è troppo scontato, banale. Lo è meno l´idea di un´opinione pubblica che si lascia modellare o strizzare, finché non assume la forma desiderata. Lo capì per tempo Gustav Le Bon, quando intuì che alla figura del politico che si serve della persuasione razionale si sarebbe sostituita quella del meneur des foules, il quale plasma il materiale umano a sua propria immagine; dell´ipnotizzatore capace di guidare le emozioni di chi soggioga dentro una logica dell´inverosimile, che prevale sulla realtà. Speriamo solo che non sia un processo irreversibile».
(1-continua)