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Repubblica-Caro professore, ti scrivo...

Caro professore, ti scrivo... L'epistolario compensa forse il suo difficile rapporto con i figli che lo hanno definito "un padre assente". Lieserl, la primogenita, non lo vide mai, E...

05/06/2005
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la Repubblica

Caro professore, ti scrivo...
L'epistolario compensa forse il suo difficile rapporto con i figli che lo hanno definito "un padre assente". Lieserl, la primogenita, non lo vide mai, Eluard, il terzo, finì in un manicomio
PIERGIORGIO ODIFREDDI


Finora, che cosa pensasse in teoria Albert Einstein sulla scuola e l'insegnamento lo si poteva desumere dai saggi raccolti in Idee e opinioni (Il Cigno, 1990), nei quali egli dichiarava fra l'altro che "l'unico sistema razionale d'educazione è di offrire se stessi come esempio e, se non lo si può evitare, come avvertimento", che "lo scopo della scuola è di far acquisire ai giovani una personalità armoniosa, e non una specializzazione", e che "l'eccessivo carico didattico porta necessariamente alla superficialità". Cioè, l'esatto contrario di ciò che la maggioranza delle scuole di ogni tempo e luogo ha sempre praticato.
Degli esami di maturità, poi, Einstein pensava che fossero non soltanto inutili, visto che un insegnante può giudicare molto meglio un allievo valutando il suo lungo percorso scolastico che non le sue brevi prove finali, ma anche dannosi, per la tensione emotiva e lo sforzo mnemonico che richiedono, al punto da poter generare incubi duraturi e distruggere la curiosità intellettuale. Concordando, in questo, con un altro famoso avversario degli esami, il matematico Giuseppe Peano, secondo il quale "se serve, a bocciarli ci penserà la vita".
Che cosa facesse invece in pratica il Caro Professor Einstein quando interagiva con gli alunni delle inferiori lo si può ora leggere in un omonimo libro, a cura di Alice Calaprice, dedicato ai bambini di tutto il mondo, che contiene la corrispondenza tra il grande scienziato e i suoi piccoli interlocutori, sui tipici problemi metafisici che se posti nell'infanzia sono indice di maturità intellettuale, e nella maturità diventano invece sintomo di infantilismo: "Che cos'è l'anima?", "Che cos'è il paradiso?", "Che cos'è il tempo?", "Che cos'è la quarta dimensione?", e via dicendo.
Naturalmente, i bambini che scrivevano a Einstein erano vittime dell'influsso mediatico che ne aveva fatto un'icona del suo tempo: al punto che, quando morì, il suo corpo venne cremato e le ceneri furono disperse in un luogo sconosciuto, per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggi. E, per lo stesso motivo, chi si rechi oggi in Mercer Street a Princeton non troverà nessun segno di riconoscimento che indichi la "villetta bianca a due piani con la veranda e le colonnine" in cui abitava, ricordata dalla nipotina Evelyn nella sua introduzione al volume.
Einstein era infatti nonno, e dunque anche padre, benché in maniera poco grandiosa. La prima figlia, Lieserl, non la vide mai: fu partorita in Serbia, paese natale della prima moglie, e di lei si sono perse le tracce dopo i suoi venti mesi. Il terzo figlio, Eluard, a vent'anni divenne schizofrenico, finì in un ospedale psichiatrico, e non ebbe più contatti diretti col padre negli ultimi vent'anni della sua vita. E la corrispondenza con Eluard e il fratello Hans Albert, non riportata in questo libro, rivela un crescente risentimento dei due bambini per le assenze del genitore, ormai diventato famoso, nonostante egli li assicurasse che anche in un solo mese all'anno "da me potrete imparare molte cose che gli altri non vi insegneranno tanto facilmente".
Non è, comunque, che nella sua vecchiaia Einstein abbia trovato più tempo per i bambini altrui di quanto ne avesse avuto per i propri: le sue rare risposte alla sessantina di loro lettere, risalenti al periodo fra il 1928 e il 1955, sono spesso soltanto aforismi. Il più noto è indirizzato a una dodicenne, preoccupata dello sforzo che le richiedeva lo studio: "Non preoccuparti delle tue difficoltà in matematica: ti posso assicurare che le mie sono ancora più grandi".
A un saputello che gli diceva di aver riflettuto a lungo sulla relatività, rispose: "Credo che faresti meglio a dare lezioni agli altri soltanto dopo aver tu stesso imparato qualcosa di utile". E a un altro: "Non sei il giovanotto più sensato al mondo, ma è un bene che tu sia perlomeno un ragazzo curioso".
A una bimba che gli chiedeva se gli scienziati pregano, dichiarò che "gli scienziati non sono inclini a credere che il corso degli eventi possa essere influenzato dalla preghiera, vale a dire, da una volontà soprannaturale". Aggiungendo, però, che "la ricerca scientifica conduce a un sentimento religioso particolare, del tutto diverso dalla religiosità di chi è più ingenuo". E a un padre che sperava di rivedere in cielo il figlio undicenne morto, rispose: "Non alimentare l'illusione, ma cercare di superarla, è la via per raggiungere la pace della mente". Chi non è d'accordo, faccia un segno (della croce).