Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Repubblica: Cervelli in libera uscita

Repubblica: Cervelli in libera uscita

La "fuga dei cervelli" dai nostri istituti universitari e di ricerca è un tema che fa discutere e preoccupa, con più di una buona ragione

23/01/2008
Decrease text size Increase text size
la Repubblica

NADIA URBINATI

La "fuga dei cervelli" dai nostri istituti universitari e di ricerca è un tema che fa discutere e preoccupa, con più di una buona ragione. Scriveva Salvatore Settis su la Repubblica di qualche giorno fa che gli studenti italiani sono tra i migliori candidati nei concorsi banditi da università straniere e, soprattutto, tra i più numerosi. "Abbiamo formato ottimi studiosi, ma li spingiamo ad andarsene", scrive Settis. La mia esperienza di accademica emigrata mi porta a vedere le cose da un punto di vista leggermente diverso e che potrebbe essere utile considerare per una più completa conoscenza (e soluzione) del fenomeno.
Il problema che vorrei sollevare è quello relativo agli effetti perversi che il timore dell´emigrazione può creare, e crea, nelle nuove generazioni, ovvero in chi prende oggi la decisione di completare la propria formazione all´estero. Non vi è dubbio che chi ama la ricerca non può né deve ragionevolmente temere di uscire e temporaneamente emigrare perché il nomadismo intellettuale è una condizione sotto molti punti di vista necessaria e ideale, soprattutto nella fase formativa, ma non solo. I confini nazionali sono un criterio arbitrario per chi ha vocazione alla ricerca. Tuttavia, questa condizione ideale si concretizza più facilmente laddove e quando la libertà di movimento è effettiva, ovvero quando non è solo libertà di uscita ma anche di entrata. Ma quando c´è asimmetria tra libertà di uscita e possibilità di rientro, quella che è un´utilissima, stimolante e anche piacevole esperienza intellettuale può essere vissuta come ragione di esclusione e sradicamento. Quando e se l´opportunità di ritorno manca o è gravemente compromessa, allora la passione per la ricerca si mescola con il timore per le possibili conseguenze che il desiderio e la decisione di uscita possono avere nelle proprie scelte di vita. Questo timore, spesso fortissimo, mette in evidenza un vizio o un ostacolo nel sistema accademico e di ricerca italiano che è molto marcato e sarebbe nell´interesse del sistema educativo stesso, oltre che dei singoli studiosi, che venisse rimosso.
Nel corso di questi ultimi anni, la mobilità verso gli atenei stranieri è cresciuta anche in ragione del processo di integrazione europea e per gli effetti virtuosi dei programmi Erasmus. L´abitudine a lasciare il paesello sta finalmente attecchendo anche da noi. Dal mio osservatorio di Columbia University posso constatare che è da qualche anno cominciata una nuova forma di presenza italiana: quella di studenti che, completata l´università in Italia, concorrono a posti di dottorato nelle università straniere, tuttavia non con l´intenzione di trasferirsi all´estero. Sono le proposte formative che li interessano non il mercato del lavoro americano. Tuttavia le implicazioni psicologiche che una possibile ammissione al dottorato può produrre sui nostri giovani candidati mi hanno fatto conoscere una realtà che è inquietante, e che non è la fuga dall´Italia, ma invece il timore di non poter rientrare; un timore che può avere un effetto deterrente notevole. Non è difficile da comprendere il sentimento di esclusione che la condizione di emigrazione, o il solo suo pensiero, può provocare. Non è difficile da credere che i giovani che si apprestano ad andare a perfezionarsi all´estero siano messi di fronte a un problema esistenziale e psicologico grande e difficile, un problema che non dovrebbero avere.
Nell´ateneo dove insegno giungono studenti e ricercatori da tutti i paesi del mondo e la notizia dell´ammissione ad un corso di dottorato è per loro motivo di reale di meritata soddisfazione e gioia. Ma gli studenti italiani sono insieme felici e preoccupati perché sanno che rientrare potrà per loro essere un problema, per l´ovvia e perenne scarsità di risorse e quindi di opportunità di reclutamento degli atenei italiani; ma soprattutto e in primo luogo perché è noto che nell´accademia italiana vige il pessimo costume (che è anche regola) di considerare l´immobilità come un bene da premiare e la mobilità come un male da scoraggiare. Se poi si tratta di mobilità in università americane, allora la mobilità diventa un "lusso" da punire. I nostri ragazzi lo sanno e lo temono.
Questa è una situazione riprovevole e profondamente ingiusta che, mentre produce sofferenza in chi la subisce, non fa del bene al nostro aese. Se paesi come l´India o la Cina sono di tanto riconosciuto successo economico è anche perché non hanno emigrazione intellettuale: i loro studenti vengono a perfezionarsi nelle università occidentali ma per tornare nei loro paesi, non per emigrare. In questi paesi, la risorsa cultura non è vista solo come un bene personale di chi la coltiva, ma anche come un bene per la società, nella quale tra l´altro la formazione culturale è cominciata nella maggioranza dei casi con soldi pubblici ed è giustamente considerata un investimento che il paese fa per il proprio futuro. Dare la possibilità del ritorno risponde a un calcolo di convenienza che un paese previdente e oculato dovrebbe saper fare. E´ anche nell´interesse dell´Italia che "il ritorno dei cervelli" non sia un problema. E´ per questa ragione che mi sembra improprio parlare di "fuga dei cervelli" perché la questione vera non è uscita. I cervelli non scappano, vanno a nutrirsi. Sono le università italiane e i loro perversi meccanismi di reclutamento che troppo spesso chiudono le porte a chi esce, trasformando l´andata all´estero in una fuga.
(l´autrice è docente
alla Columbia University)