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Repubblica: Corsi di teatro e lezioni di legalità la riscossa delle scuole di frontiera

Da Napoli a Palermo: "Così vinciamo la sfida all´ignoranza"

10/04/2007
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la Repubblica

Fra i prof degli istituti a rischio: "Abbiamo riscoperto il senso della missione"
"Non possiamo permetterci la noia, ogni giorno inventiamo qualcosa di diverso"
Alle medie Sciascia nel quartiere Zen negli ultimi anni si è dimezzato il numero dei giovani che hanno abbandonato gli studi
A Forcella l´ordine del preside: abbiamo abolito la televisione, questi ragazzi respirano già abbastanza violenza
MICHELE SMARGIASSI

NAPOLI - «Signo´ scusate... So´ sparite le squadrette». Ha bussato prima di entrare. Tonino, scugnizzo dodicenne, testa rasata, anellino a un orecchio, brillantino all´altro, faccia ombrosa: «Erano sei, stavano nell´armadio, so´ sparite». Fernanda Tuccillo, preside, sospira: «Vabbuo´, domattina in classe ne parliamo, le squadrette le ricompriamo coi soldi della scuola e poi ci state attenti tutti». «Grazie signo´», se ne va rinfrancato. «Cos´ha appena visto?», interroga la professoressa. La denuncia di un furto, risponde il cronista. «Io invece ho visto un ragazzino di strada che si fida di un´autorità, che riconosce un´istituzione. Ecco la risposta per lei».
La domanda era: serve ancora la scuola? Funziona ancora la scuola? Alla fine di questo viaggio fra gli ingranaggi grippati della macchina educativa italiana, tra professori stressati, genitori rivendicativi, studenti allo stato brado, siamo arrivati vicini a dubitarne, e a concludere che la scuola italiana è una facciata di cartone, una finzione sociale che uno stato decente deve pur mantenere, ma di cui non sa che farsene. Ma qui, nella pace dei corridoi pieni di sole dell´istituto comprensivo Ristori-Durante di Napoli, comunità di qualche centinaio di ragazzi tra materne, elementari e medie, dietro il portone di ferro che isola e protegge dal caos dei vicoli di Forcella, cominciamo a dubitare di quel dubbio. Lungo le scale, grandi cartelli colorati recitano poesie e pensieri sulla legalità. «Visto che bravi i nostri ragazzi», s´inorgoglisce la bidella mentre sciacqua i gradini. «Siamo una piccola società con le sue regole», è una donna energica e sorridente la professoressa Tuccillo, «i nostri ragazzi hanno il berretto col nome della scuola. Apparteniamo a qualcosa. Mi creda, non è poco». Annalisa Durante era la "parrucchierina" quattordicenne uccisa in uno scontro a fuoco in questi vicoli il 27 marzo 2004. Fino a poco tempo fa le aule grandi e nitide della scuola che ora porta il suo nome erano la via di fuga dei ricercati di un noto clan camorrista, durante i blitz di polizia. «La prima cosa che feci cinque anni fa, appena arrivata, fu chiudere il portone ogni mattina alle 8,30. Qui era un porto di mare, chiunque entrava e usciva. I genitori insorsero, chiamai i carabinieri». Adesso c´è un comitato di genitori che si chiama "Diamo n´occhio ‘e criature", c´è una ludoteca per tenere i bambini dopo la fine delle lezioni: «Meglio che stiano con noi più possibile». Prende un foglio da quaderno, poche righe di calligrafia infantile: «Signora preside, vogliamo un´aula per giocare al pomeriggio», in cornice di cuoricini. «Quando i ragazzini preferiscono stare a scuola invece di giocare a pallone nel vicolo, abbiamo costruito qualcosa».
Bisogna scendere in trincea per ritrovare la scuola che funziona, che nuota forte per non affogare. Dove i soliti problemi hanno un altro sapore. «Il bullismo, i video, scusi se lo dico, sono problemi di lusso»: questa è Giusy Ferraro, insegna storia alle medie Sciascia di Palermo, quartiere Zen, una delle oltre 400 «scuole a rischio» individuate dal ministero. Quando la viceministro Mariangela Bastico venne in visita, notando le sbarre alle finestre chiese: «Avete ragazzi che vogliono scappare?», le risposero: «Onorevole, abbiamo delinquenti che vogliono entrare». I professori qui arrivano tremando, ma se ne vanno col rimpianto: «Quello che ho imparato qui, nessun corso universitario...». Negli ultimi anni l´abbandono scolastico alle Sciascia è sceso dal 24 al 16 per cento. «Abbiamo investito tutto sulla motivazione dei docenti», dice la professoressa Giusy, «lo Stato non ha soldi ma ci sono i fondi europei, non è vero che non si può fare nulla. I colleghi delle scuole "bene" magari s´annoiano gestendo l´ordinario. Noi non ce lo possiamo permettere, dobbiamo inventarci la scuola ogni giorno».
«Non creda a chi dice che non si fa nulla perché non ci sono i soldi», riprende la preside Tuccillo, «qui da anni facciamo scuola coi fichi secchi. Se li cucini bene, sono nutrienti». Un finanziamento regionale qui, un consulente strappato là, e a Forcella si tiene aperta la scuola anche a luglio, si fa psicomotricità vera «e non dietro-front avanti-march», partono i pullman per i campi-scuola nel Casentino e in Umbria. La scuola di Forcella ha ottanta docenti, «non tutti straordinari, ma pure questo conta poco. Quando sono arrivata ho trovato insegnanti stanchi, demotivati. I sogni ben chiusi nel cassetto. Abbiamo aperto quei cassetti. A volte basta poco: una lettera di pubblico elogio per un incarico svolto bene».
Fiori dal fango, la scuola migliore dal contesto peggiore. Non è storia già vista? Quarant´anni fa il maestro Albino Bernardini scrisse "Un anno a Pietralata", quel diario di un maestro di borgata nell´inferno dei "rifiutati" che fu un vangelo della generazione degli insegnanti del Sessantotto, assieme a "Lettera a una professoressa" di don Milani e a "C´è speranza se questo accade al Vho" di Mario Lodi. Bernardini non era ingenuo: leggeva Piaget, frequentava Rodari, ebbe i suoi insuccessi, i suoi crolli nervosi, ma il sogno di una «buona scuola» che non lascia per strada nessuno nacque così, nelle scuole di frontiera. Che forse anche oggi, con meno manifesti militanti e più lavoro silenzioso, hanno qualcosa da insegnare alla scuola annoiata e demotivata, alla scuola-circo dei reality di YouTube. «La nostra scuola funziona be-nis-si-mo», scandisce Camillo Carbonara, 62 anni, maestro da 35 alle elementari del 13° circolo, quartiere Cep1, un tempo il più malfamato di Bari, scuola a cui nessuno s´è dato pena di trovare un nome, «ma è meglio così, siamo quello che siamo». Il segreto? Corsi, convegni? «Ma quali corsi e convegni. Nessuno dei miei colleghi ci va più, è frustrante, torni a casa con tanti appunti e poi ti chiedi: ma poi io domattina cosa devo fare?». La scuola si fa a scuola, ogni giorno. «La buona scuola la fanno i buoni insegnanti. Autorevoli e non autoritari, non distratti, non sordi. Lo sa che i miei bambini quando disegnano un adulto lo fanno sempre senza le orecchie?».
Insegnanti ancora provvisti di orecchie, Giuseppe Rosario Esposito per la verità ne conosce molti. «Un po´ visionari, fanno straordinari non pagati, ci chiamano a casa la domenica per mettere un progetto su Internet». Giuseppe, 18 anni, vive a Casavatore, zona Scampia, dove «il bullismo si chiama delinquenza, e negli zainetti non ci sono videofonini ma coltelli con lame lunghe così». Ogni giorno fa un´ora di bus per studiare domotica (la tecnologia casalinga) all´Iti Gadda di corso Malta, periferia degradata a nord-est di Napoli, vista sullo svincolo della tangenziale, ma anche laboratori, teatro, palestre come si deve; collabora a progetti europei, è tra i redattori di un manifesto di rinnovamento didattico, e pensa che «se c´è buona scuola da noi, può esserci ovunque». Un mese fa, all´ennesimo servizio del tigì sui video-bulli, ha perso la pazienza e ha scritto una lettera aperta contro lo stereotipo della "non-scuola": «Io non picchio i professori, amo lo studio, sarò mica anormale?», e ha lanciato uno slogan da buon copywriter: «La scuola smetta di far parlare di sé e cominci a parlare da sé». Il sito Repubblica. it l´ha pubblicata e sono fioccate centinaia di reazioni: qualche sfottò, molti «era ora». L´ha convocato a Roma il ministro Fioroni. Al quale ha detto: «Se la scuola serve solo a far diplomi è finita, a Napoli i diplomi si comprano». Berretto da baseball, parlata alla Troisi, giubbotto, pagella «sul filo della sufficienza», come Giuseppe ce ne saranno migliaia. «Ma per i media esiste solo la non-scuola dei videofonini».
Nella scuola di Forcella la tivù è bandita. «Questi ragazzi respirano già abbastanza violenza». La preside Tuccillo s´accorge quando c´è stata una retata notturna anti-camorra dei carabinieri anche senza leggere i giornali, le basta leggere le facce stravolte e assonnate degli alunni la mattina dopo: «Se non hanno bussato a casa loro, hanno bussato a quella del vicino». Ma a scuola quei bambini ci vanno e ci vogliono restare. «La malattia profonda della scuola non sono i cellulari o i bulli. È l´apatia, la perdita della missione». Qual è la missione, professoressa? «Il riscatto dall´ignoranza», risponde senza enfasi. Sono parole ottocentesche... «Ma cos´altro è la scuola?». Ci pensa un attimo: «Prenda Tonino, quello delle squadrette. È un bambino delizioso. Ma corre sulla lama di un rasoio, può cadere di qua o di là, io non so cosa sarà di lui quando uscirà di qui, non so se saprà affrontare il mondo e resistere. Ma almeno ci può provare. Questo fa la scuola». Clacson dalla strada. Caos davanti al portone all´ora di uscita, come sempre. «I vigili dicono che perdono tempo a venire davanti alle scuole», s´infila la giacca, «allora vado io...». Una collega la intercetta in corridoio: «Preside, in che aula l´incontro sulla legalità?». C´è speranza se questo accade a Forcella, al Cep1, allo Zen.


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