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Repubblica-Dietro la paura di un esame facile

DIETRO LA PAURA DI UN ESAME FACILE MAURIZIO MURAGLIA Quanto avviene al termine di ogni anno scolastico ha ormai i contorni della tragica ritualità, e forse l'esame di Stato ci risparmierà ...

23/06/2005
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la Repubblica

DIETRO LA PAURA DI UN ESAME FACILE
MAURIZIO MURAGLIA
Quanto avviene al termine di ogni anno scolastico ha ormai i contorni della tragica ritualità, e forse l'esame di Stato ci risparmierà qualche altra brutta notizia per il solo fatto che da quando le commissioni sono formate da docenti interni la prova finale sembrerebbe aver perduto l'antica crucialità.
Però le cose non stanno esattamente così. I ragazzi che da ieri sostengono gli esami sono tesi. Hanno paura. Hai voglia a spiegar loro che in fondo con la nuova formula difficilmente si viene bocciati. Non ci sentono. Hanno paura. Sulle ragioni di questa paura credo convenga ragionare.
Su Repubblica di martedì Giorgio Cavadi ha analizzato il fenomeno delle morti post-scrutinio abbozzando un quadro sistemico in un buon equilibrio tra l'atteggiamento colpevolizzante di cui non mancano esempi nefasti e una difesa corporativa che suonerebbe non meno avulsa dalla realtà. Ragioni di spazio evidentemente non gli hanno consentito di sviluppare la questione del "sistema che guarda ormai ai numeri e non agli individui", su cui qui vorrei fare qualche osservazione dal fronte di chi incontra quotidianamente gli studenti.
Mi pare di poter dire che i ragazzi - ma il processo comincia fin dai primi anni dell'asilo - hanno comunque paura di deludere chi investe energie sulla loro riuscita, a prescindere dall'atteggiamento che possono assumere per mascherare questo stato d'animo. Troppo spesso infatti il cosiddetto "menefreghismo" di cui vengono accusati è soltanto una maschera dietro la quale si celano molte ansie, molte ferite e molte lacrime. L'esperienza mostra che il successo o l'insuccesso scolastico, intesi soltanto in una dimensione premiale o punitiva, rappresentano una preoccupazione che prende più i genitori che i ragazzi stessi. Ai ricevimenti delle famiglie raramente i genitori supportano la domanda "Mio figlio come va?" di istanze che vanno oltre il nudo rendimento scolastico. Di alcune famiglie non si ha traccia finché il figlio non prende un quattro. A quel punto ti vengono a chiedere cosa è successo. Gli stessi docenti in buona fede cadono spesso in questa trappola rimandando a casa senza una parola la famiglia dell'alunna che ha tutti otto e nove e lucrando in tal modo sui tempi della riunione, salvo leggere sui giornali che i suicidi riguardano anche adolescenti che a scuola vanno bene. Mi è capitato talvolta di sentire il bisogno, direi quasi genitoriale, di dire a questi genitori: sì, sua figlia va benissimo, ma si porta addosso una tristezza infinita. Ma questi tre minuti di conversazione in più possono dover pagare il prezzo di un'occhiataccia della collega che ha fretta&
Sto troppo lontano dalla realtà se dico che tra i 14 ed i 18 anni si ha un abissale desiderio di essere voluti bene? Se proviamo a seguire questa pista, fuori da ogni connotazione retorica dell'espressione "volere bene", e ad incorporare il momento della valutazione scolastica dentro un percorso relazionale fortemente segnato dal bisogno dei ragazzi di essere presi in considerazione al di là (non al di fuori) delle loro prestazioni scolastiche, è probabile che riusciamo a capire un po' di più su quel che succede davanti ai tabelloni finali. La mia sensazione è che la tenaglia della produttività, tenuta con una mano dalla famiglia e con l'altra dalla scuola, si sia stretta attorno a questi ragazzi che sono chiamati a "dare risultati", come se l'abisso della loro esistenza possa essere ridotto alle prestazioni che essi, non solo a scuola, riescono a fornire.
L'alunno che ha scarsi risultati a scuola è sentito in famiglia come un fallimento a fronte dei sacrifici compiuti dai genitori, e la scuola fa fatica a invertire questo trend - anche se molti docenti meritoriamente ci provano - che mette i nostri adolescenti dentro il vicolo cieco del fare bene o morire. Lo schema moralistico secondo il quale alla colpa deve seguire la pena, che purtroppo ha radici culturali e religiose durissime a morire e che presuppone l'indebita identificazione tra la persona e la sua performance, ha fatto alleanza con il delirio produttivistico che investe tutti gli angoli della nostra esistenza finendo per dilagare anche dentro il delicatissimo processo della valutazione scolastica.
Schiacciati da un sistema perverso che trova involontariamente alleati mondo del lavoro, famiglia e scuola, i ragazzi, che lo mostrino o meno, hanno paura di fallire. Dicono molti colleghi che sono fragili. È vero. Ma la soluzione non sta nel non bocciare nessuno. Sarebbe come abdicare a una mission istituzionale della scuola. Si tratta a mio parere di ripartire dalla semplice idea che un essere umano - un ragazzo in questo caso - può realizzare azioni efficaci o inefficaci, può ottenere successi o insuccessi, ma che il suo essere nel mondo contiene un valore inalienabile e numericamente indecidibile. Un valore in cui per primi gli adulti devono credere e soprattutto mostrare (non paternalisticamente che sarebbe peggio) di credere. Posso mettere un voto basso o bocciare un alunno ma al termine di un percorso in cui ogni gesto quotidiano è stato capace autenticamente di scorporare il valore intrinseco del mio alunno dalla sua prestazione. Si tratta di una finezza relazionale a cui tutti noi che abbiamo vissuto un'adolescenza diversa, forse meno drammatica, siamo chiamati, e che è possibile cominciare a praticare senza attendere che ce lo dica il ministero.
Maurizio Muraglia