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Repubblica: I cento giorni del partito-governo e il vuoto d'aria della democrazia

In questo vuoto d´aria della democrazia risulta naturale la tendenza del partito-governo a trasformare la "vocazione maggioritaria" in " vocazione totalizzante".

21/08/2008
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la Repubblica

ANDREA MANZELLA

Passati cento giorni della sua formazione, si capisce che l´unico "partito" che ha realizzato la sua "vocazione maggioritaria" è il partito-governo. "Stravince l´esecutivo", titola il Sole /24 ore: approvate 18 leggi, sei al mese, di cui solo una di iniziativa parlamentare; il consiglio dei ministri vara la manovra finanziaria triennale in 9 minuti e mezzo e la fa passare in meno di 30 giorni in parlamento. E´ tutto vero. Ma perché "partito-governo"?
Perché il governo appare oggi l´unico luogo in cui è stato possibile, finora, il concorso necessari "a determinare la politica nazionale", (secondo l´art. 49 della Costituzione). Al di fuori di esso, né i due partiti parlamentari che l´appoggiano, né i due che gli si oppongono danno la stessa percezione di unitarietà e di reattività. Elaborazione e decisione politica si consumano interamente all´interno del governo. La tradizionale vita dei partiti (dibattito, scelta dei dirigenti, correnti, giornali, fondazioni, congressi) è ridotta così a magra cosa, sia per i partiti di maggioranza sia per quelli di opposizione.
In questo vuoto d´aria della democrazia risulta naturale la tendenza del partito-governo a trasformare la "vocazione maggioritaria" in " vocazione totalizzante". E dunque ad inglobare nella sua sfera di influenza, riducendole a voci "tecniche", posizioni culturali che, ignorate o trascurate, potrebbero assumere rilevanza politica di opposizione o di diversa opinione.
E´ questo un rischio non solo italiano. E´ comune alle democrazie maggioritarie. Le ultime vicende di Francia sono assai significative. Da un lato, il presidente Sarkozy ha sollecitato le proposte (bipartisan e international) della commissione Attali. Ma nello stesso tempo, ha "visto" quel rischio e ha fatto approvare, il 21 luglio scorso ( tra i mugugni dei suoi e il "cretinismo" oppositorio) una revisione costituzionale complessiva: diretta a rafforzare il parlamento e i diritti dei cittadini. Insomma, in Francia si è capito che la linea di galleggiamento di una democrazia maggioritaria non può consistere né in un assolutismo del vincitore né nell´assorbimento di posizioni "altre". Ma deve essere assicurata anche da un riequilibrio interno dei poteri costituzionali e nel riconoscimento di nuovi poteri di cittadinanza.
Il caso italiano è certo più complicato: per due gravi concorrenti motivi. Il primo è che nella maggioranza, e nell´opinione pubblica che la sostiene, non vi è traccia alcuna di consapevolezza dell´ipotrofia raggiunta dai poteri di governo. Anzi, se ne continua a chiedere l´accrescimento, in una prospettiva iper-presidenzialista. Non si tratta di cattiva coscienza. Quanto piuttosto della perduranza di un riflesso pavlòviano di reazione all´impotenza dei vecchi governi di coalizione, a formazione proporzionalista, che hanno marcato un lungo periodo della nostra storia costituzionale.
Da quel riflesso sono d´altra parte condizionate anche molte persone con maglia di opposizione. Esse credono ancora che il male della nostra democrazia sia sempre nella debolezza istituzionale del governo. E ripropongono gli stessi medicinali ormai scaduti: studi, commissioni, progetti, radicati in un clima politico-elettorale totalmente diverso dall´attuale. E non si accorgono neppure della caduta verticale delle garanzie parlamentari di sistema. Perfino quando il governo si procura in tre giorni con una "leggina" la immunità dei processi penali. O quando decide che lo "spirito democratico della Repubblica" (art. 52 della Costituzione) sia conciliabile con l´uso delle Forze Armate in compiti di pubblica sicurezza nelle strade cittadine.
L´altro grave motivo che rende difficile il caso italiano è il ruolo chiave che nel sistema politico ha assunto il "leghismo" . Non tanto con riferimento alla formazione guidata dal ministro Bossi, quanto alla diffusione di una ideologia divisionista per la risoluzione dei problemi del Paese. Ideologia che consiste nel prendere atto delle fratture reali esistenti tra i territori italiani (nel costume civico, nel rendimento scolastico, nella capacità amministrativa, nello spirito imprenditoriale, ecc.) e di istituzionalizzarle come questioni locali, da affrontare con strumenti locali. E´ l´ideologia non tanto dell´egoismo territoriale, quanto della rinuncia e dell´abbandono: rispetto agli storici sforzi per l´unificazione sostanziale italiana. Come se non ci fosse più nulla da fare e le grandi questioni nazionali dovessero essere tutte compresse e ripiegate nel localismo.
Così è del tutto logico che ad un leghismo settentrionale si affianchi (e non si contrapponga) un leghismo meridionale; ad un leghismo lombardo, un leghismo veneto; ad un leghismo a "statuto speciale", un leghismo a "statuto ordinario", e così via. Perfino la progettazione per Roma e il suo "distretto" è percepita come leghismo romano (da chi magari teme che il disegno istituzionale di una grande capitale possa alla fine divenire-come Bruxelles in Belgio- il più serio ostacolo al processo di frammentazione).
Il "federalismo fiscale" nella versione contabile che propone il governo può essere il filo conduttore nel labirinto dei "leghismi" italiani? Nessuno che abbia a cuore quello che un tempo si chiamava la "causa nazionale" può credere che sia così. Al contrario, quello strumento – isolato nella sua tecnicità tributaria; senza una vera rappresentanza territoriale che lo legittimi; senza un´idea complessiva repubblicana che lo animi –finisce per diventare un´occasione in più per segmentare l´Italia.
Il sindaco siciliano che scalpella il nome di Giuseppe Garibaldi da una piazza cittadina ha, nel suo piccolo, rappresentato lo spirito di questa ritirata dall´idea di Nazione. Ma anche il punto estremo da cui poter cominciare a riannodare il filo delle cose.
Certo, quel poveretto non poteva sapere che Garibaldi le uniche sue dimissioni politiche da parlamentare le dette, il 7 gennaio 1864,per protestare proprio contro certe indiscriminate repressioni militari in Sicilia, il "pacchetto sicurezza" d´allora. Scrisse il generale: «non mi consiglia solo l´affetto dovuto alla Sicilia, ma il pensiero che in essa furono offesi il diritto e l´onore, compromessa la salute di tutta l´Italia». C´e´ pure l´onesta retorica del tempo. Ma in quel gesto, in quelle parole c´è forse qualcosa che non è morto e che si può riprendere. Il senso delle garanzie istituzionali da ristabilire innanzitutto in parlamento (come pregiudiziale a qualsiasi "riforma"). Il legame tra questioni regionali e questione nazionale (come "salute di tutta l´Italia"). A ben vedere, due ampie corsie spalancate per far fronte al partito-governo: senza sbandare nell´opposizionismo né nel conformismo.