Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Repubblica: Il rischio federalista nel paese spezzato

Repubblica: Il rischio federalista nel paese spezzato

Eugenio Scalfari

24/08/2008
Decrease text size Increase text size
la Repubblica

Dedico queste note di oggi al federalismo, fiscale e costituzionale e cioè all´attribuzione di competenze allo Stato, alle Regioni, alle Province, ai Comuni e alle risorse necessarie per farvi fronte. Ancora si sa molto poco delle proposte leghiste e quel poco è molto contraddittorio. Perciò cercherò soprattutto di individuare i vari problemi che il federalismo dovrebbe risolvere e quelli ancora più numerosi che esso solleverà nella società e nell´amministrazione.
Ma prima c´è un altro tema da affrontare, del quale mi sono già occupato domenica scorsa e cioè lo stato dell´opinione pubblica in Italia. Il tema ha suscitato numerosi interventi e anche qualche fraintendimento come sempre accade quando il dibattito si fa vivace e denso di interessi anche politici. Del resto non si tratta di un argomento peregrino rispetto a quello del federalismo; le autonomie del territorio, l´identità nazionale e quelle locali, le loro reciproche compatibilità e idiosincrasie affondano infatti le radici nelle opinioni che le sostengono. L´opinione pubblica è come l´atmosfera: impalpabile, pura o inquinata, strutturata nelle sue componenti chimiche ma al tempo stesso volatile sotto la sferza di venti improvvisi.
Un federalismo che non fosse appoggiato dall´opinione pubblica nazionale sarebbe morto; d´altra parte una nazione che non si riconosca come tale è destinata a sfasciarsi. Per questi motivi il dibattito sull´attuale consistenza delle opinioni costituisce una sorta di pre-condizione al riassetto delle istituzioni, centrali e locali. Ho scritto domenica scorsa che esistono nella nostra società diverse opinioni: una berlusconista, una riformista e laica, una cattolica, una ispirata alle imprese e ai valori economici. Aggiungo che vi è anche un´opinione nordista molto forte.
Ma l´aspetto più inquietante non sta nel fatto che queste diverse opinioni forniscano l´immagine di una società divisa in tanti spezzoni discordanti tra loro. La differenza è un fatto normale in una società democratica anzi addirittura positivo.
L´aspetto inquietante consiste invece nel degrado dell´opinione pubblica in una miriade di opinioni private, di gruppo e di corporazione, di territori e di individui. Lo specchio rotto riflette in ogni suo frammento una figura e un interesse particolare. La visione del bene comune in queste condizioni diventa spesso ipocrisia. Si pensa e si agisce per sé e per la propria confraternita. I valori degradano a convenienze personali e corporative. Questa che per me rappresenta la devastazione e la desertificazione di ogni opinione pubblica costituisce il brodo di coltura del populismo, della democrazia plebiscitaria e autoritaria, della delega in bianco. Nadia Urbinati l´ha chiamata "dissenso docile" e quindi indebolimento dell´opposizione. È un modo efficace per descrivere un processo. Ma Aldo Schiavone, che pure concorda sull´immagine dello specchio rotto e del privatizzarsi delle opinioni, vede in quest´ultimo fenomeno alcuni aspetti positivi. Ci vede un modo per resistere all´apatia, alla pigrizia sociale e ci vede una capacità di farsi largo e un modo per restare in gara nell´economia globale.
Non sono d´accordo su questo giudizio consolatorio in mancanza di meglio. Per tre ragioni: la prima è che lo smarrimento dell´interesse generale e la privatizzazione degli interessi favoriscono il dominio dei forti sui deboli e l´attuarsi di intollerabili dislivelli e odiose diseguaglianze sociali. La seconda è la scomparsa della politica come attività regolatrice della convivenza e la sua degradazione a pura funzione di sostegno degli interessi forti. Basta leggere su "Repubblica" di venerdì l´intervento di Federica Guidi, presidente dei giovani industriali di Confindustria, per avere l´immagine di un´ideologia economicista che vede la politica come il "comitato d´affari" del potere economico del quale parlavano i marxisti del secolo scorso, rinverdito nell´epoca della globalizzazione.
Ma la terza ragione a me sembra ancora più dirimente delle prime due: la privatizzazione delle opinioni non è un fenomeno recente ed effimero, ma una costante della storia d´Italia. Una costante nefasta ma per fortuna combattuta da uno spirito pubblico che non si rassegna alla polverizzazione familistica e corporativa e si pone valori collettivi. Valori di colore diverso uno dall´altro ma vissuti come tali e quindi politici.
Lo scontro tra l´Italia "che si arrangia" e l´Italia "che si impegna" non è altro che la storia di questo Paese dall´epoca delle "Signorie" fino ad oggi. In questo scontro l´Italia "che si arrangia" ha avuto la meglio molto più spesso dell´Italia "che si impegna". Quando parlo di impegno sono ben consapevole che questa parola va al di là degli steccati tra destra e sinistra.
L´Italia che si arrangia ha vinto tutte le volte che i detentori del potere hanno dato, essi per primi, l´esempio di privatizzare l´interesse pubblico e questo esempio è stato così frequente e così devastante da configurare il nostro Paese con le maschere della commedia dialettale. L´italiano è anarchico, furbo, debole e servile con i potenti, crudele e arrogante con i più deboli. Questa è l´immagine: convenzionale perché reale.
Ad essa si oppongono gli italiani consapevoli delle proprie responsabilità collettive. Anch´essi sono portatori di interessi, non hanno certo natura angelica né eroica. Il loro impegno consiste nel sublimare gli interessi a valori collettivi, impersonati da soggetti collettivi, ricostruendo uno specchio nel quale la società possa riflettersi insieme al proprio passato e alla progettazione del proprio futuro.
Ho colto durante questo dibattito molte voci che rivalutano il presente, la necessità di agire sul presente e nel presente, ma questa è una tautologia perché si opera sempre e comunque nel presente; ma il futuro comincia già un attimo dopo. Chi opera e vive attimo per attimo è una barca senza timone e senza nocchiero, a cominciare dall´imprenditore che vuole realizzare valore (cioè profitti) subito. Quando questo accade la finanza soverchia l´industria e i risultati negativi si vedono. L´investimento imprenditoriale segue una sua strategia e comporta tempi tecnici per attuarla nonché i rischi che ne derivano.
Si opera dunque nel presente avendo l´occhio al futuro e la memoria delle origini dalle quali si proviene. Diceva Dante: «Tu se´ manto che tosto raccorce / sì che se non s´appon di die in die / lo tempo va dintorno con le force». Parla della vita e della sua nobiltà. Troppo spesso lo dimentichiamo.
* * *
Il federalismo è senza dubbio entrato nel sentimento degli italiani in questa fase della nostra vita pubblica, con un´intensità inversamente proporzionale all´attenuarsi del sentimento nazionale e di quello europeista. L´identità localistica, regionale e comunale, ha un netto sopravvento non tanto sulla nazione intesa come patria quanto sullo Stato.
Lo Stato non ha mai goduto d´un grande favore in Italia. Oggi è addirittura detestato dalla maggioranza dei nostri concittadini. Deve essere leggero. Funzionale. Assolutamente privo di etica, cioè non portatore di visioni etiche. L´etica ce la mette semmai la Chiesa. Ma quella della Chiesa è un´etica tradizionale e solidaristica. I suoi pilastri sono la famiglia e la carità, cioè l´amore del prossimo, pilastri che non combaciano con l´identità localistica. Non a caso il popolo leghista è assai poco cattolico, almeno nel senso della solidarietà ecumenica.
Il rischio del federalismo dal punto di vista dei sentimenti è quello di accrescere la separatezza localistica non soltanto tra Nord e Sud ma anche tra Piemonte e Lombardia, Lombardia e Veneto, Puglia e Marche, Lazio e Campania e addirittura tra Padova e Verona, tra Roma e Milano, tra Brescia e Bergamo, tra Parma e Bologna, tra Catania e Palermo.
La Lega infatti è preoccupata da questi contrasti e farà quanto può per superarli o almeno non aggravarli dal punto di vista fiscale. Calderoli nella sua inedita versione di statista ha già fatto il giro delle sette chiese per realizzare un ecumenismo federalista perché alla Lega interessa portare a casa entro la fine dell´anno la legge delega. Rinviare oltre quella data non si può perché la macchina federalista è stata ormai lanciata a pieno motore e fermarla adesso equivarrebbe ad una catastrofe politica.
Gli obiettivi della Lega sono almeno tre: diminuire la distanza tra cittadini e istituzioni, trattenere "in loco" il maggior numero di entrate fiscali, acquistare sovranità locali sul maggior numero di materie. Per rendere accettabili in tutto il Paese queste finalità sentite prevalentemente nel Nord, la Lega ha capito che occorre "vestire" di valori questi interessi e quindi confezionare un´immagine che sia attraente per tutti. L´immagine è quella di un federalismo che avrà come risultato finale la diminuzione del dislivello tra Sud e Nord perché l´autonomia consentirà al Sud di accrescere i suoi redditi; il livello delle imposte diminuirà (in futuro), le amministrazioni locali saranno più snelle e più efficienti, alle regioni di più bassa capacità d´investimento sarà accordato il potere di adottare una fiscalità di vantaggio del tipo di quella irlandese; sarà istituito un fondo nazionale di perequazione alimentato da contributi delle regioni più ricche e dello Stato per sostenere il periodo transitorio di adeguamento delle più povere al livello standard dei servizi pubblici.
Le materie interamente affidate alle Regioni e ai Comuni saranno la sanità (già lo è in gran parte), l´istruzione, l´assistenza, la disciplina degli immigrati con i nuovi poteri affidati ai sindaci.
Mancano al momento indicazioni sugli strumenti fiscali da affidare alle istituzioni locali. Si parla di Iva, ma c´è uno ostacolo europeo; si parla di addizionali Irpef e addirittura dell´Irpef tutta intera. Si parla di accise (benzina e tasse di fabbricazione sui raffinati). Si parla anche di Irpeg e comunque di imposte sulle produzioni svolte sul territorio. L´esempio più eloquente sarebbe di tenere a Melfi l´incasso sul valore delle auto Fiat prodotte in quello stabilimento e a Termini Imerese quello sulle produzioni della fabbrica Fiat lì operante. Scomporre e ricomporre. Una rivoluzione imponente. Forse spostando dalle imposte dirette a quelle indirette il maggior peso del carico tributario con tutto ciò che ne deriva sui singoli contribuenti.
Bisognerebbe anche diminuire i trasferimenti dello Stato alle Regioni a statuto speciale, ma su questo punto si profila un contrasto radicale tra le cinque Regioni in questione e tutte le altre.
Si può mettere in carta e votare in Parlamento una legge delega di queste proporzioni tra l´ottobre e il dicembre prossimo? Senza correre il rischio di varare un aborto informe se non addirittura un mostro legislativo? Per di più in tempi di recessione e di estrema preoccupazione del gettito tributario? Scomporre o produrre solo caos?
Sui costi effettivi di questa mastodontica operazione non si ha alcuna notizia. Lo statista Calderoli ritiene che avverrà a costo zero ma un calcolo accertato e certificato non c´è. Tremonti ha addirittura dichiarato che la messa in pista del federalismo fiscale fornirà risorse aggiuntive, ma non ha precisato se questa sua previsione si riferisca alle spese della pubblica amministrazione nel suo complesso o soltanto a quelle dell´amministrazione centrale: dettaglio tutt´altro che marginale.
Ma c´è un altro aspetto del quale si parla poco o nulla: il diritto dei cittadini ad avere prestazioni eguali dai principali servizi pubblici, senza discriminazioni tra chi vive in Calabria o in Veneto, in Emilia o in Campania, nel Molise o in Sardegna, in Lombardia o nelle Marche. Quest´aspetto della questione spetta allo Stato di garantirlo. Se così non fosse l´intera costruzione federalista si sfascerebbe come un castello di sabbia.
Post Scriptum 1. Il governatore della Sicilia ha auspicato che il federalismo consenta alle Regioni di decidere sulla localizzazione delle centrali nucleari che verranno costruite e si è detto pronto a farne sorgere una in Sicilia. La Sicilia non si identifica con la mafia e la stragrande maggioranza dei siciliani non è mafioso, ma è un dato di fatto che la mafia in Sicilia c´è. Una centrale nucleare in Sicilia? Ci pensate? Altro che rischio atomico…
Post Scriptum 2. Le prospettive di crisi economica in tutti i Paesi dell´Unione europea sono sempre più nere: giù i consumi, giù gli investimenti. Ci vorrebbero interventi espansivi. Lo dice da molto tempo Draghi e lo dicono anche Berlusconi e Tremonti ma poi allargano le braccia e alzano gli occhi al cielo da buoni cattolici: per ora i soldi non ci sono, bisogna pazientare.
I soldi non ci sono anche se per ora le entrate registrano ancora un surplus sulle previsioni. Viceversa il rapporto deficit-Pil viaggia ancora al di sotto della soglia del 3 per cento stabilita da Bruxelles. Si può alzare di qualche frazione di punto quella soglia? L´operazione è audace in tempi di crescita zero del Pil, ma portare il deficit al 2,7 rispetto all´attuale 2,4 è una strategia fattibile. Consentirebbe una disponibilità di cinque miliardi da impegnare in detassazioni di consumi e di investimenti. L´Italia potrebbe adottare questa strategia, resa possibile dal buono stato dei conti che Tremonti ha ereditato da Padoa-Schioppa. Perché non lo fa? Non è la prima volta che gli indirizziamo questa domanda ma lui non risponde, non so se per timidezza o per arroganza o per cattiva educazione. Germania e Francia a suo tempo questa strategia la adottarono. Noi siamo meno eguali di loro?