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Repubblica-Il tempo perduto

Il tempo perduto di MASSIMO GIANNINI Nel giorno in cui la Banca d'Italia ripone le speranze di "un nuovo miracolo economico" che solo un anno fa aveva frettolosamente affidato a Berlusconi, il ...

01/06/2002
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la Repubblica

Il tempo
perduto
di MASSIMO GIANNINI

Nel giorno in cui la Banca d'Italia ripone le speranze di "un nuovo miracolo economico" che solo un anno fa aveva frettolosamente affidato a Berlusconi, il governo prova a riaprire con i sindacati il "cantiere delle riforme". Il 23 novembre di un anno fa Maroni presentava le deleghe legislative sulle pensioni e sull'articolo 18. Da quel passo sconsiderato, l'Italia si è fermata. Il Cavaliere l'ha costretta a sei mesi esatti di scontri sociali, di polemiche sfibranti e di paralisi normative, meritando le giuste frustate di Antonio Fazio. Forse non è un caso se nelle sue Considerazioni finali il governatore denuncia le difficoltà che "hanno spostato di almeno sei mesi l'inizio di una fase più positiva dell'attività economica".

Buttati al vento 180 giorni di legislatura in nome di un puro feticcio ideologico più che di una positiva iniezione di flessibilità, il governo prova adesso a recuperare. Lo fa con una mezza retromarcia. Toglie dalla delega sul mercato del lavoro gli articoli sulla riforma del licenziamento senza giusta causa e sugli ammortizzatori sociali, e li trasferisce in un disegno di legge specifico congelato per i prossimi due mesi in attesa di un accordo tra le parti su questa materia. Nel frattempo, avvia da subito una trattativa serrata anche sul sommerso, sul Mezzogiorno e sul fisco. Non è quello che i sindacati hanno richiesto con una manifestazione nazionale e uno sciopero generale. Infatti la Cgil non ci sta, e si chiama fuori dal negoziato sul lavoro. Non è uno stralcio, nel senso tecnico-parlamentare. Ma un po' gli somiglia. E questo basta a Cisl e Uil per firmare un protocollo d'intesa preliminare a Palazzo Chigi.

La mossa del governo è astuta dal punto di vista tattico. La scomposizione del confronto in quattro tavoli separati per materia risponde all'esigenza di uscire dalle sabbie mobili dell'articolo 18, e di mettere almeno una toppa sulla tela del dialogo sociale, irragionevolmente strappata nell'autunno del 2001.

L'iniziativa di Berlusconi moltiplica i fronti del possibile scambio con le parti sociali e, per questa via, consente un depotenziamento degli eventuali, ulteriori conflitti. Soprattutto, infila un nuovo cuneo tra Cofferati, Pezzotta e Angeletti. Il primo si ritira da uno dei quattro tavoli negoziali, pronto ad avviare da solo una nuova fase di lotta che culminerà con un secondo sciopero generale. Gli altri due accettano l'offerta del Cavaliere, e provano a vedere a che gioco sta giocando. In qualunque trattativa la spaccatura del fronte sindacale e la frammentazione degli interlocutori è un ovvio maleficio.

Per il centrodestra l'isolamento del segretario della Cgil, sempre più sospettato di intenzioni politiche, può essere al contrario un enorme beneficio. Lo caratterizza come un miope conservatore agli occhi dell'opinione pubblica, e lo svalorizza come possibile leader di un centrosinistra riformista agli occhi del ceto politico dell'Ulivo. Ma la mossa del governo è ambigua dal punto di vista strategico. Da un lato, attraverso le parole del documento finale proposto alle parti sociali, testimonia nella forma la volontà di far vivere lo strumento della concertazione e lo spirito degli accordi di luglio del '93. Propone una discussione aperta su alcuni temi centrali dell'equità e dello sviluppo, a partire dal sistema tributario per arrivare alla lotta al lavoro nero. Ma dall'altro lato, al di là delle bugie calcolate o delle gaffe inconsapevoli raccontate in conferenza stampa dal premier, taglia fuori dal negoziato un altro dei temi centrali della contesa di questi mesi: la riforma delle pensioni, sulla quale esiste una delega legislativa ma non un tavolo nel quale discuterla. E soprattutto nasconde le carte sul nodo vero della questione, cioè proprio il famigerato articolo 18.

Tra il verbale firmato ieri e la soluzione pratica concordata con le parti sociali, non è chiaro se e in che modo il governo andrà avanti lo stesso nella modifica della norma, anche in assenza di un accordo tra Cisl e Uil e imprenditori. Berlusconi è soddisfatto. Coglie "lo spirito collaborativo" delle parti. Si compiace di "non esser stato sparato". Ma quello che ha in testa nel merito della riscrittura dello Statuto dei lavoratori, in realtà, non è chiaro. E la poca chiarezza alimenta due dubbi. 1) A livello sindacale, anche nella Cisl e nella Uil si è aperta una crepa vistosa. Non pochi segretari confederali contestano la decisione dei leader Pezzotta e Angeletti, troppo ansiosi di siglare un preliminare di due cartelle stranamente già pronto in bella copia per la fine del vertice a Palazzo Chigi.

Sullo sfondo, si agita l'ombra di Antonio D'Amato. Usando le stesse parole del presidente del Consiglio, il presidente della Confindustria a fine riunione si affretta a precisare che "non c'è stato nessuno stralcio". E aggiunge che comunque "se anche non ci sarà l'accordo tra le parti il governo andrà avanti lo stesso e farà la sua proposta". Tanta solerzia, non dovuta né richiesta, non può che alimentare il sospetto e confermare l'impressione di una piena condivisione di strategie e di intenti tra il governo e gli industriali. E' un elemento che inquina il confronto dei prossimi due mesi. E che al contrario di quello che pensa D'Amato, non contribuisce affatto a "sgomberare il tavolo dalle pregiudiziali".

2) A livello politico, la scelta di trasferire la riforma dell'articolo 18 in un disegno di legge, e di fissare la scadenza per l'eventuale accordo tra le parti sociali al prossimo 31 luglio, dà corpo ai timori di una precisa intenzione sabotatoria da parte della maggioranza. Quella di voler intralciare la campagna referendaria che l'opposizione ha messo in agenda nel prossimo autunno. Il piano dell'Ulivo è evidente. Con il solo referendum contro la legge sulle rogatorie non si va da nessuna parte. Una campagna referendaria credibile e capace di mobilitare l'elettorato, sia in termini di quorum sia in termini di consenso, deve aggregare anche i quesiti sui licenziamenti e sul conflitto di interessi. Ma perché si possa votare nel 2003, le relative leggi dovrebbero essere varate dalle Camere entro la fine di settembre. Non può essere un caso se all'improvviso, dopo mesi di pressing parlamentare e di forzatura politica, la Casa delle Libertà fa melina proprio su queste due sedicenti "riforme".

Se impedisce questi due referendum, il governo toglie un'arma importante all'opposizione, in vista della campagna d'autunno. E fa un danno rilevante alla sinistra riformista: in campo, a quel punto, resterà solo il referendum della sinistra radicale di Fausto Bertinotti, che invece di rendere più flessibile il sistema economico punta a paralizzarlo definitivamente, estendendo le tutele dell'articolo 18 anche alle micro-imprese con meno di 15 dipendenti. Questi sono dati di fatto, e non fantasmi che turbano la mente ossessionata del "Cofferati politico".

Detto questo, e in attesa di valutarne gli sviluppi, la mossa del Cavaliere ha il pregio di rimettere in moto il confronto. La speranza è che anche sul fronte del mercato del lavoro si riparta mettendo nel giusto ordine la vera gerarchia dei problemi. Prima si discuta di nuovo Welfare, di ammortizzatori e di assistenza sociale, di garanzie per chi è uscito dal ciclo produttivo e per chi non ci è mai entrato. Poi si potrà ragionare di nuova flessibilità del lavoro, in entrata e magari anche in uscita. Sotto questo profilo, l'assenza di Cofferati dal tavolo del confronto non è positiva. O ha la forza, anche da solo, di far recedere il governo. Oppure, non giocando il primo tempo della partita, avrà perso due volte.

Ma anche per Berlusconi i problemi restano tutti sul tappeto. Il governatore della Banca d'Italia, dopo avergli aperto una linea di credito senza precedenti, glieli ha squadernati davanti in maniera impietosa, all'assemblea della Banca d'Italia. Il Paese non è competitivo, da nessun punto di vista. Le nostre merci perdono quota, l'export cala. Il mercato del lavoro esige più flessibilità, ma anche più solidarietà. La finanza pubblica non va. Le misure varate finora, a partire dalle cartolarizzazioni, sono semplici una tantum. Per restare in Europa ci sono solo due strade. Uno sconto o un rinvio, da negoziare a Bruxelles, sugli impegni sottoscritti nel Patto di stabilità. Oppure una manovra correttiva da varare al più presto, come chiede la Banca d'Italia. Tremonti giura di non voler percorrere la prima strada, almeno per adesso, in attesa di verificare le mosse di Germania e Francia a corto di fiato come l'Italia.
Ieri, in risposta a Fazio, assicura di non voler imboccare nemmeno la seconda strada, convinto di mantenere i conti pubblici in equilibrio senza dover chiedere sacrifici aggiuntivi al Paese.

Delle due l'una. O il governo ha in mano una carta magica e segreta, con la quale saprà aggiustare i saldi di bilancio al momento opportuno. O sta vendendo all'opinione pubblica l'ennesimo spot pubblicitario, col rischio di si trasformi presto in un flop politico. Marco Follini sostiene che Berlusconi subisce il fascino di Tremonti, perché vede in lui una specie di fantasioso "mago dei numeri". Ma con i numeri non si scherza. Con i portafogli degli elettori meno che mai. Il tempo dei miracoli è davvero scaduto.

(1 giugno 2002)