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repubblica-L'ISTRUZIONE E L'IDEOLOGIA

GIULIO ANSELMI NON c'è da meravigliarsi se decine di migliaia di professori, di genitori, di ragazzi hanno sfilato per ore sotto la grandine e la pioggia per protestare contro la riforma Moratti:...

29/02/2004
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la Repubblica

GIULIO ANSELMI
NON c'è da meravigliarsi se decine di migliaia di professori, di genitori, di ragazzi hanno sfilato per ore sotto la grandine e la pioggia per protestare contro la riforma Moratti: intervenire sulla scuola non significa infatti sostituire una struttura economico-professionale con un'altra più o meno adeguata, ma immaginare il modello di società più desiderabile e, al tempo stesso, delineare il futuro dei giovani. Valutazioni così complesse mescolano ideologia ed interesse, accendono passioni, valicano barriere generazionalie scatenano reazioni che solo in parte vengono espresse e canalizzate dai consueti rivoli di protesta, slogan, bandiere, striscioni, minacce di sciopero.
Ieri abbiamo assistito alle solite bordate di luoghi comuni dall'uno all'altro schieramento, con un centrodestra che rilanciava vecchie parole d'ordine - "modernità", "Europa", "inglese", "informatica" - e un centrosinistra che deplorava giustamente la miopia del governo nei confronti della scuola pubblica ma non andava al di là del brutto neologismo "de-forma". Se alziamo lo sguardo oltre gli allarmi e i sospetti, pur giustificati, che gli interventi della Moratti, in sintonia con la filosofia privatistica della maggioranza, mirino soltanto a dequalificare la scuola pubblica a tutto vantaggio di quella privata, possiamo dire che la riforma è, per ora e in concreto, poca cosa. Ma minacciosa.
La parte già varata dal Consiglio dei ministri, e cioè il decreto sulla scuola elementare (ora "primaria"), contiene infatti innovazioni più lessicali che sostanziali: la tanto discussa figura del "tutor", l'insegnante responsabile e coordinatore che supera il modello paritario delle tre maestre introdotto nel 1990, è di là da venire (prevista per l'anno prossimo non si sa ancora come realizzarla). Il tempo pieno, dopo la resistenza congiunta di maestre e genitori, almeno per ora, non scompare e non viene ridotto: anche se appare fondata la preoccupazione degli insegnanti per il passaggio dalle attuali quaranta ore a un pasticcio-parcheggio che somma ventisette ore di didattica a dieci (dieci!) ore di mensa a tre ore di attività varia. Ciò che più inquieta sono gli ideologismi, aziendalista e familista, che pervadono la riforma. La visione che la ispira non è quella di formare i cittadini, cioè trasmettere ai giovani i valori fondamentali della convivenza dotandoli della preparazione di base necessaria per svolgere successivamente il proprio ruolo, ma di sfornare i futuri lavoratori. Il mito dell'impresa, per bambini fino a tredici anni, si riassume, come ha scritto Edmondo Berselli su questo giornale, "in quella micidiale sciocchezza terminologica che è il portfolio delle competenze", una sorta di cartella clinico-scolastica di ciascuno scolaro, espressa in "bocconese". Le altre due "i", oltre impresa, che facevano strillare ieri all'"idiozia al cubo", e cioè inglese e informatica, sarebbero invece sacrosante: ma andrebbero trasferite dal piano degli slogan elettorali (ricordate i manifesti di Berlusconi per le politiche del 2001?) a quello della praticabilità scolastica, dove già esistono, ma dove il loro sviluppo si scontra con una cronica mancanza di soldi.
L'ideologismo familista, che attribuisce alle famiglie un ruolo crescente, si dispiega tanto nella possibilità di anticipare l'ingresso in prima elementare, quanto nella possibilità di accedere a "piani di studio personalizzati", nel nome della flessibilità. Anche qui il punto di partenza è teoricamente condivisibile ma dominato da un'astrattezza che può condurre alla formazione di classi compren- denti bambini divisi da quindici-sedici mesi di età, che non è poco; mentre i piani fondati sulle attitudini individuali nessuno sa cosa siano e come si debbano organizzare. Nell'un caso e nell'altro si rovescia una pesante responsabilità su un soggetto sociale che non sempre è in grado di assumersela. Si fa presto a dire che per il centrosinistra in primo luogo viene la scuola, che rappresenta la centralità dello Stato, per il centrodestra invece la famiglia, che incarna l'autonomia dell'individuo, accusando chi avanza dubbi di avere una concezione dirigistica della società. L'ideologia fa dimenticare a certi soloni che la famiglia è una realtà in grande evoluzione; e comunque non ne esiste una sola, standard: c'è una varietà incredibile di nuclei sociali, di diritto e di fatto, spesso appartenenti a culture lontanissime dalla nostra. Vogliamo escludere da una scuola di base, in nome di arcaismi che si ammantano di modernità, tutti coloro che non rientrano nello stereotipo? L'ipotesi dei gruppi di livello, cioè della suddivisione delle classi in sotto-classi a seconda delle capacità dei bambini, indurrebbe a sospettarlo.
Altri aspetti della riforma, come l'anticipazione della scelta per le scuole superiori a tredici anni, realizzando un doppio canale, quello dei licei e quello tecnico-professionale, sono criticati perché prefigurerebbero una divisione marcatamente classista, da una parte le menti e, dall'altra, le braccia. Ma è giusto dire che nella stessa direzione, che ha diversi esempi in Europa, si muoveva, in sostanza, anche il progetto Berlinguer.
Il centrodestra ha ragione nel ritenere necessario mettere le mani sul nostro sistema scolastico, spesso obsoleto e, in ampie sue zone, inefficiente. Ma la necessità di trasmettere nuove conoscenze e diverse capacità per consentire ai giovani una preparazione più adeguata al loro inserimento sociale e alla competizione nel lavoro non si può tradurre nella pretesa di imporre nella scuola la propria visione del mondo.
L'istruzione pubblica è un bene collettivo, la scuola è un servizio essenziale perché risponde a esigenze strategiche del paese. Non si può pensare che esista una scuola del centrodestra e una del centrosinistra, come fa sospettare la pretesa di mettere le mani su una elementare che funzionava. Solo in un paese schizofrenico si può accettare l'idea che ogni cinque anni si cambia. Gli insegnanti fanno bene a ricordarlo con determinazione e con durezza. Ma proprio per l'importanza del ruolo che difendono, dovrebbero abbandonare, al tempo stesso, certe spinte corporative. Troppo spesso hanno marciato contro ogni cambiamento, a tutela di loro ragioni, vere o presunte: difendere la scuola è un dovere, pretendere che resti immobile non giova a nessuno.


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