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Repubblica: La guerra tra poveri al tempo della crisi

La recessione è globale come globale è il capitalismo. E pare non ci sia rimedio

19/02/2009
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la Repubblica

Nadia Urbinati

A leggere il New York Times di questi tempi sembra di leggere una sintesi del Manifesto del partito comunista. Dagli avvocati di Parigi agli operai-quasi-schiavi di Pechino alle guardie del corpo dei mercanti di droga colombiani, stava scritto sulla prima pagina del giornale newyorkese di domenica scorsa, tutti stanno assistendo impotenti e atterriti alla scomparsa dei posti di lavoro. La recessione è globale come globale è il capitalismo. E pare non ci sia rimedio. Gli esperti economici sono più bravi a descrivere la crisi (a narrarla spesso con toni apocalittici) che a intravedere quali rimedi e in quale ordine approntarli. Anche loro sembrano aver preso molta dimestichezza con il testo di Marx. Il neo nominato direttore del servizio nazionale di intelligence, Dennis C. Blair, ha dichiarato davanti al Congresso degli Stati Uniti che l´instabilità che la crisi economica globale causerà da qui ai prossimi anni (poiché di anni già si parla, non più di mesi o di un anno) sarà forse la più grande minaccia che il paese dovrà fronteggiare dopo l´11 settembre. La crisi come il terrorismo dunque: una minaccia imprevedibile negli effetti e nella durata, impossibile da dominare o contrastare con sicurezza.
La seconda grande depressione dell´era capitalistica ha preso tutti alla sprovvista. Alcuni, pochissimi e mai ascoltati, ne avevano cominciato a parlare diversi anni fa, ma l´ottimismo reaganiano, il boom dei ventenni diventati miliardari nello spazio di una notte sotto il cielo californiano, li aveva tacitati e censurati come comunisti (a quella cultura appartiene anche il nostro Presidente del Consiglio). I radicali liberisti dispensavano la "bugia bella" del "meno tasse più benessere per tutti" e con grande sostegno popolare depauperavano le risorse pubbliche per creare artificialmente ricchezza per alcuni pochi distribuendo coriandoli colorati ai molti. Charles Sanders Peirce, il più geniale e sofisticato logico pragmatista, scriveva nel 1893 che l´economia politica era riuscita a rovesciare a proprio vantaggio la massima evangelica come aveva già fatto la Favola delle api di Mandeville: i "vizi privati di ogni genere sono di pubblico beneficio" perché dominando il prossimo si fa il bene di entrambi; come le goccioline d´acqua che zampillano dalla fontana, il benessere bagnerà un po´ tutti, chi più chi meno, dominati e dominatori. Gli economisti contemporanei hanno tradotto questa massima antievangelica nella formula trickle-down, un termine che spiega appunto lo zampillare giù di alcune goccioline di ricchezza per effetto di una detassazione generale, la quale mentre beneficerà moltissimo i pochi darà un qualche sollievo anche ai più umili, se non altro per il senso di essere alleggeriti di una spesa. Robert Nozick aveva messo come la ciliegina su questa torta ideologica, teorizzando che pagare le tasse era come una schiavitù, l´essere costretti con la forza a dare il proprio lavoro allo Stato.
La logica del trickle-down é quella dell´effetto indiretto, l´opera d´arte di questa retorica anti-publica: una logica fondata sulla credenza che tagliare le tasse porterà indirettamente un beneficio generale. Ovviamente nessuno può determinare "l´indirettamente" – è la logica del sistema che come una provvidenza naturale o per propria endogena intelligenza guiderà le azioni economiche di tutti, ricchi e poveri, verso quella direzione, senza aver bisogno di usare leggi e sanzioni. Peirce, che si definiva un "sentimentalista", aveva battezzato questo dogma dell´economia moderna (una sorta di religione secolarizzata) come il "vangelo dell´avidità". In anni a noi più vicini, Paul Krugman ha parlato dell´oligarchia dell´opulenza, che ha manipolato l´opinione di milioni di persone in tutti i paesi del mondo con la favola del trickle-down, come di un esempio macroscopico di "avidità" tradotta in logaritmi e massime dogmatiche.
Oggi appare assai evidente che le goccioline di benessere non riescono più ad alimentare nei molti l´illusione di essere dissetati dai profitti stratosferici dei pochi. I molti (che non sono necessariamente i più miserabili, ma ora anche la classe media) non hanno più soldi da spendere e lottano come disperati per non perdere il lavoro. Lottano quasi sempre tra di loro: i lavoratori americani o italiani contro i disperati che vengono da fuori a rubare loro il pane. La crescita del razzismo, del nazionalismo arrabbiato e violento è proporzionale alla caduta dell´illusione provocata dal trickle-down. E tanto negli Stati Uniti come in Europa sono i giovani, coloro che hanno meno di 35 anni, a risentire di più della crisi di occupazione, perché non nascono nuovi posti di lavoro e quelli che sono già presi sono a rischio. I governi di tutti i paesi hanno trovato nel protezionismo la più visibile risposta alla disoccupazione dei loro cittadini: "Lavori britannici ai lavoratori britannici". Pare di leggere una storia già nota, tristemente nota, una storia cominciata con le politiche protezionistiche degli stati liberali di fine ottocento e finita con i ringhiosi nazionalismi dei regimi fascisti. La "cattiveria" contro gli stranieri che vengono a rubare il pane agli italiani sembra la prefazione di un libro tristemente noto. Chi saprà dire ai nuovi impoveriti che il loro nemico non è tra loro? Questa è una domanda che l´opposizione dovrebbe farsi subito e alla quale dovrebbe dare una risposta competente e chiara. Ma prima dovrebbe far chiarezza al proprio interno, perché ancora fino a pochi mesi fa l´idea che la giustizia seguisse naturalmente la liberalizzazione e la deregolamentazione era un principio portante del programma dei democratici.