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Repubblica-LA MAIONESE IMPAZZITA

LA MAIONESE IMPAZZITA ANDREA MANZELLA Con quella di ieri alla Camera è almeno la quinta volta che la maggioranza tenta di proporre una versione "accettabile" del suo progetto di revision...

16/10/2004
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la Repubblica

LA MAIONESE IMPAZZITA
ANDREA MANZELLA
Con quella di ieri alla Camera è almeno la quinta volta che la maggioranza tenta di proporre una versione "accettabile" del suo progetto di revisione costituzionale. E ogni volta cerca di recuperare ragioni e critiche di una opposizione culturale, prima ancora che politica. Quelle stesse ragioni e critiche che, ad ogni "giornata storica" di approvazione, aveva invece giudicato infondate e faziose. Purtroppo anche questa volta la maionese costituzionale è impazzita. Anche questo progetto va ad allinearsi in una serie di figurine Pokémon di progetti deformi, in mano ad un bizzarro collezionista.
Perché, nonostante qualche emendamento di buona volontà, il progetto rimane inaccettabile? Perché non sono state accolte le tre richieste di fondo che fin dall'inizio si sono avanzate di fronte a questa manovra istituzionale. Nelle garanzie, nel rapporto Stato-Regioni-Comuni, nell'equilibrio stesso dei poteri repubblicani di governo
Le garanzie. Fino alla noia, si è detto e ripetuto che, dopo il tramonto del regime proporzionale, vi è la necessità di una verifica, nel "muro contro muro" proprio del sistema maggioritario, della sicurezza dell'intero ordine di limiti e contro-limiti costruito dalla Costituzione del 1948. In altri termini, nel "muro contro muro" dev'essere creata una intercapedine di diritti e di procedure che diano respiro alla vita della Repubblica, sottraendola alla logica assoluta di maggioranze e di opposizioni. Questa richiesta non è stata presa in alcuna considerazione, salvo che per l'approvazione del regolamento della Camera. Infatti. Il triangolo istituzionale dei grandi garanti (capo dello Stato e presidenti delle Camere) è eletto, in ultima analisi, dalla maggioranza assoluta. Per le autorità indipendenti, le condizioni di autonomia sono stabilite non in Costituzione ma da una legge di maggioranza. La pubblica amministrazione non è stata posta al riparo dallo spoil system. Il contenzioso elettorale, le inchieste parlamentari sono pur sempre affidate al predominio di maggioranza. Nessuna garanzia per il sistema delle telecomunicazioni.
Nemmeno la pallida ombra di un tentativo per legare rappresentanza parlamentare e partecipazione civica e referendaria. Resta nei sogni l'istituto, così utile per svelenire, il confronto nelle democrazie "decidenti", del ricorso parlamentare di opposizione alla Corte costituzionale. Al contrario, accanto a tante omissioni vi è una ferita proprio al nostro Tribunale costituzionale: iper-politicizzato nella sua composizione ed escluso, per la prima volta, da certi ambiti di verifica di legittimità costituzionale del procedimento legislativo. Senza queste garanzie, la nostra democrazia è palesemente a rischio. Non l'hanno voluto capire. Non possono quindi pretendere che sia accettata una riforma che trascura elementari interventi di sicurezza democratica.
Il rapporto Stato-autonomie territoriali. La richiesta del buonsenso e della logica istituzionale che percorre spontaneamente non solo la nostra Repubblica ma tutta l'Unione europea, è quella di un ordinamento a rete.
Flessibile secondo le opportunità dell'intervento pubblico e dell'impegno privato. Scorrevole secondo i mobili principi dell'adattamento e della proporzionalità ai bisogni del cittadino, delle imprese, delle organizzazioni collettive. Questa richiesta si è infranta contro il cocciuto mito dell'esclusività di competenze legislative regionali sia in settori chiave della vita sociale (l'assistenza e l'organizzazione sanitaria, i programmi scolastici, la sicurezza regionale e cittadina) sia in settori aperti all'innovazione.
L'esclusività che è ormai fuori corso legale per lo stesso Stato, nell'intreccio di competenze con l'Unione europea, diventa così un tabù di chiusura, fonte di duplicazioni e di sprechi. Oltre che di insopportabili disuguaglianze tra ricchi e poveri contro la coesione sociale del Paese.
Queste chiusure non sono superate dal modello proposto di nuovo Senato.
C'erano due vie da percorrere. Il recupero della lunga esperienza - di apporto legislativo e non solo amministrativo - delle conferenze Stato-Regioni-Città.
O la via procedurale di una commissione per le questioni regionali integrata con rappresentanti delle autonomie. Questo era il modello previsto dalla riforma del 2001 ma è stato affossato dalla maggioranza con complicità istituzionali. Le conferenze invece sono state "costituzionalizzate" e ibernate: lasciate dove sono. Non si è scelta dunque né l'una né l'altra via.
Ne viene fuori un organo senza volto. Un Senato impegnato in una confusa ragnatela legislativa e in prevedibili contenziosi con la Camera dei deputati, senza che sia chiara la sua funzione di grande Camera di compensazione nazionale né la sua posizione costituzionale di fronte al governo. Questo ha infatti sempre possibilità di prevalere (coinvolgendo il presidente della Repubblica in assurde funzioni ausiliarie - o oppositive - al suo programma politico...).
Un tristo disegno di separatezza, dunque, tra il centro e gli altri luoghi della Repubblica. Ma anche una irresistibile vocazione alla frammentazione localistica e alla proliferazione burocratica. Si è infatti previsto, anche qui un "condono" per i prossimi cinque anni: si possono creare nuove regioni a richiesta delle popolazioni interessate al distacco, senza sentire le altre: amputate mute di territori e, soprattutto di circuiti economici e produttivi.
L'equilibrio dei poteri nella Repubblica, infine. La richiesta era di conciliare stabilità di governo e una composizione di reciproco contenimento dei poteri dello Stato. La risposta è stata invece: "Via il Parlamento, via il capo dello Stato". È la sintesi di un progetto tutto imperniato sul governo personale del primo ministro.
La esigenza di governi duraturi per la legislatura resta giusta (ma anche ormai sovradimensionata in un sistema ipermaggioritario com'è il nostro da dieci anni). Essa è stata però tradotta nell'ingabbiamento del Parlamento in una serie di poteri governativi che annientano il dibattito parlamentare e vincolano alla decisione immediata.
La potestà di dissoluzione dell'assemblea elettiva, assegnata al primo ministro è solo il culmine di questa serie di poteri. Ma ha la forza di cancellare insieme sia gli equilibri nella coalizione di governo sia la tradizione di consiglio, accompagnamento e controllo di costituzionalità da sempre esercitato dai nostri presidenti della Repubblica.
Qui il progetto raggiunge il suo punto critico. Le troppe esperienze recenti di assolutismo legislativo fanno toccare con mano i pericoli democratici in cui non solo l'attuale governo, ma qualsiasi governo illimitato fatalmente incorre.
Il quinto protocollo di intesa della maggioranza - carico di dubbi di legittimità sulla stessa procedura seguita di revisione "a sacco" della Costituzione - avanza dunque verso un irrecuperabile destino. Può giungere sino ad una precaria approvazione parlamentare (anche perché le due ultime deliberazioni non prevedono, contro l'articolo 72 della Costituzione, la votazione articolo per articolo...). Il presidente della Repubblica non potrà neppure più lui intervenire per cercare di correggere qualcosa (è sempre così nei procedimenti di revisione costituzionale su cui pende il referendum).
L'appuntamento sembra dunque già prefissato per un voto popolare di affossamento. Tempo e denaro in fumo. Si poteva fare, invece, qualcosa.