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Repubblica: La scuola non ama gli artisti

Inchiesta

06/06/2008
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la Repubblica

L´Italia ha un primato: è l´unico paese al mondo dove la storia dell´arte è una materia scolastica. Ora la Francia ha deciso di imitarci, ma nonostante il boom delle mostre da noi nulla è cambiato rispetto alla legge Gentile
Gli orari in otto decenni sono rimasti immutati e la collocazione è mortificante
La conoscenza del nostro patrimonio dovrebbe essere un cardine dell´educazione

SIMONETTA FIORI

Per comprendere l´eccezionalità italiana, basterebbe un episodio recente: l´incursione a Trastevere, nel monumentale palazzo della Pubblica Istruzione, di Pierre Baqué e Vincent Maestracci, autorevoli rappresentanti dell´Education nationale francese per l´insegnamento delle arti. Qualche mese fa gli uomini di Sarkozy sono venuti da noi per chiedere lumi sulla storia dell´arte, materia che il presidente francese ha deciso di introdurre a partire dal prossimo anno nelle scuole di ogni ordine e grado. La Francia che chiede lumi all´Italia? Una delegazione parigina che si prende la briga di chiedere a noi come si fa?
La straordinarietà del voyage en Italie richiede una spiegazione, che consiste in un dato poco conosciuto: siamo l´unico paese al mondo che preveda nei propri programmi scolastici l´insegnamento della storia dell´arte. Un primato dettato dall´inestimabile patrimonio artistico di cui gli italiani sono titolari. Ma a spegnere ogni orgoglio patrio arriva il più clamoroso dei paradossi: proprio nel paese di Giotto e Caravaggio, in quell´unica scuola che includa la storia dell´arte tra le proprie materie, la disciplina fatica a uscire da una condizione ancillare alla quale sembra condannata fin dalle origini. Il grande studioso Adolfo Venturi citava sempre un professore di filosofia di Napoli che ai primi del Novecento, per persuadere il ministero dell´Istruzione ad affidargli l´insegnamento della storia dell´arte, adduceva tra gli argomenti il fatto "d´essere malato", "affetto di nevrastenia", "disposto quindi a dire senza affaticarmi solo della piacevole e lieve materia". Soltanto un debole di mente, in sostanza, poteva occuparsi di Michelangelo o Bernini.
"Cenerentola dell´insegnamento classico in Italia": così fu battezzata, ottantacinque fa, al suo ingresso ufficiale nelle secondarie con la riforma di Giovanni Gentile. Così viene definita ancora oggi dalle battagliere professoresse dell´Anisa, l´associazione che dal 1950 raccoglie i docenti di storia dell´arte. In poco meno d´un secolo, dopo numerose e radicali riforme, specie per i licei classici non è cambiato granché (tra autonomia e sperimentazione, la storia dell´arte figura ormai sotto nomi diversi in molti istituti secondari superiori). Nel 1930 le ore di insegnamento erano "una" in prima liceo, "una" in seconda e "due" in terza: l´orario fotocopia dell´anno scolastico ancora in corso. Senza esiti sono rimasti i buoni propositi di Francesco Rutelli, allora ministro dei Beni Culturali, che due anni fa su Repubblica s´impegnò a valorizzare la materia nei programmi scolastici. «Dopo Religione, è la disciplina meno presente nei classici», esemplifica Clara Rech, quarantenne preside del liceo romano Augusto e attuale presidente dell´Anisa. «Il tempo giudicato insufficiente per l´educazione fisica è ritenuto invece più che decoroso per la storia dell´arte».
Non solo gli orari in otto decenni sono rimasti invariati, ma la collocazione il più delle volte appare mortificante. «Capita spesso», interviene Teresa Calvano, guida dell´Anisa fino al settembre scorso, «che alla storia dell´arte venga destinata l´ultima ora, come fosse una materia leggera e glamour, una pennellata di colore al termine di una gravosa giornata dedicata alle lingue antiche o alla storia. D´altronde anche all´epoca di Giovanni Gentile era considerata una disciplina per signorine, introdotta nei licei classici e negli istituti femminili». Allora non è solo una questione di tempo, ma anche di considerazione più profonda della materia, elemento fondante ma non sufficientemente riconosciuto della storia culturale e civile d´un paese.
A questi ritardi dedica un informato volumetto Cesare De Seta, Perché insegnare la storia dell´arte (Donzelli, pagg. 126, euro 13,50), che delinea la parabola d´una disciplina sempre più svuotata di dignità e privata di qualsiasi rapporto con un patrimonio nazionale fuori dal comune. Declino che appare rovinoso in un paese che proprio nei beni culturali, "statue, dipinti, codici miniati, architetture, aree archeologiche, centri storici", e anche ambientali, "sistemi paesistici, coste, catene montuose, fiumi, laghi, aree naturalistiche protette", vanta alcune delle risorse più preziose e remunerative. La marginalità della storia dell´arte, nel processo di formazione delle generazioni più giovani, ha radici antiche che è difficile sradicare. Fin da principio la disciplina appare minata da una sorta di isolamento dagli altri campi del sapere, soprattutto dalla storia, dunque da una strumentazione che permetta di leggere la civiltà nella quale sono immersi Leonardo Bruni e Filippo Brunelleschi oppure Machiavelli e Michelangelo. Sul finire degli anni Trenta storici autorevoli come Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan - lo ricorda De Seta - spinsero la disciplina verso la letteratura, tendenza che negli ultimi anni della dittatura fascista consentì alla storia dell´arte di salvarsi da rozze contaminazioni politiche e ideologiche. Ma sul dialogo tra discipline diverse, storia e letteratura ma anche filosofia e religione, ha finito per prevalere negli anni un approccio estetizzante, quello secondo cui l´arte è mistero per pochi, e la storia dell´arte linguaggio per iniziati. Fumi idealistico-formalisti mai del tutto dissolti.
Sulla disciplina continuano a gravare ingombranti stereotipi, denunciati qualche anno fa da un numero monografico del quadrimestrale diretto da Antonio Pinelli Ricerche di storia dell´arte (Carocci). «Se si cerca quale idea di educazione storico-artistica sia racchiusa in alcune formule correnti», sintetizza Alessandra Rizzi, «vengono in mente le parole di Meneghello: "Che cos´è un´educazione? Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos´è una diseducazione"». Prevale un´idea elitaria della disciplina, ridotta ad abbellimento piuttosto che nutrimento necessario per la crescita culturale e morale del cittadino. Inascoltati sono rimasti gli insegnamenti dei grandi maestri, che molto hanno insistito sulla necessità di educare i ragazzi al rispetto del patrimonio pubblico. Gli effetti possono essere sconvolgenti. La stessa Rizzo cita un sondaggio promosso tra gli studenti del primo anno della facoltà di Lettere di Bologna con indirizzo Dams Arte. Dovendo porre in ordine cronologico alcuni grandi fenomeni stilistici, c´è chi colloca la civiltà greco-romana dopo Bisanzio e chi predilige la sequenza Bizantino-Gotico-Rococò-Romanico-Neoclassico-Rinascimentale. Ma non bisogna scoraggiarsi. «Se agli esami si sente dire che Simone Martini ha dipinto nel Settecento o che il Duomo di Milano è di stile bizantino, ci si può consolare pensando che Catilina è divenuto la moglie di Nerone, senza che per questo si possa sostenere l´inutilità dell´insegnamento del latino o della storia». Lo scriveva Lionello Venturi nel 1926, da allora l´alfabetizzazione artistica non ha fatto grandi passi avanti (la citazione è tratta dal saggio di Elena Franchi).
Sulla conoscenza dell´arte prevale il più delle volte la curiosità per l´evento, quel fenomeno per il quale si è disposti a intraprendere estenuanti file per Van Gogh o Klimt non avendo mai messo piede nella pinacoteca più vicina a casa. Lo documenta anche un sondaggio promosso di recente per il Fai da Astra Ricerche tra i giovani nella fascia d´età tra i 15 e i 24 anni (vedi box accanto). Il modello prevalente della fruizione artistica è il mix di "viaggio, enogastronomia, divertimento", mentre appare assai debole l´interesse per l´arte della propria città. E anche tra i giovani appassionati (cinque milioni settecentomila su nove milioni) quel che manca è una discreta o buona conoscenza della storia dell´arte: gli "abbastanza" o "molto informati" - sono loro a definirsi tali - non arrivano ai due milioni (ossia il 33 per cento degli appassionati, e il 21 per cento dell´intera fascia d´età). Tutti gli altri non esitano a confessare la propria irredimibile ignoranza. Viene in mente Domenico Starnone quando chiede all´allieva Seroni Catia che cos´è per lei il "bello ideale" e lei d´un fiato risponde: Claudio Baglioni.
Eppure i professori di storia dell´arte sono generalmente di qualità eccellente, sopravvissuti a scoraggianti selezioni. Ma hanno la sfortuna di insegnare una materia trascurata dagli equilibri ministeriali e anche dalle attenzioni sindacali. Alla catastrofe assiste indifferente la comunità dei critici d´arte, estranea a tutto quel che accade dentro le aule scolastiche. «Con rare eccezioni, prevale un atteggiamento di spocchia se non di disprezzo verso la scuola e i suoi professori», denuncia Teresa Rech. «Un costume ben rappresentato da Vittorio Sgarbi. Quando era sottosegretario dei Beni Culturali elogiò la Moratti per aver escluso la storia dell´arte dalle materie scolastiche. L´ha salvata dalla rovina della scuola, disse con entusiasmo. Quello della Moratti era un merito inconsapevole: secondo Sgarbi i valori dell´arte e della bellezza confliggono inesorabilmente con l´obbligo dello studio. L´unico possibile rapporto con l´arte è un rapporto amoroso, rigorosamente dopo l´orario delle lezioni». Sempre l´allora viceministro dei Beni Culturali definì "coglioni" i professori che portano i ragazzi nei musei. Però a Pierre Baqué e Vincent Maestracci, agli emissari mandati da Sarkozy per vedere come si fa, questo non è stato raccontato: troppo complicato da spiegare.