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Repubblica: La sindrome del nemico

Aldo Schiavone

14/05/2008
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la Repubblica

Devono stare attenti tutti – governo, partiti, media – a misurare le parole e i concetti, e a non evocare l´inferno, che ogni giorno è in agguato dietro la solitudine e lo smarrimento delle nostre nuove vite globalizzate. Napoli è sempre stata una città di straordinaria accoglienza. La sua storia – uno sterminato e millenario accumulo di depositi europei e mediterranei, di incroci, di fusioni, di convivenze – l´ha resa fortunatamente così

Sono perciò tanto più preoccupanti e inattesi i fuochi di violenza razzista - una specie di esasperata e abnorme rappresaglia - che arrivano da qualcuna delle sue più tormentate periferie. E sono segnali che non dobbiamo sottovalutare.
Leggendo i nomi dei quartieri e delle strade coinvolte - Ponticelli, via Argine - viene subito da pensare a un´atroce guerra di diseredati: la disperazione della Napoli più devastata dai suoi mali recenti e lontani, contro la disperazione di chi non fa altro che galleggiare nel vuoto del proprio degrado. La guerra degli abbandonati, dei lasciati soli, dei senza-Stato, da entrambe le parti.
Ma questa storia non ci parla solo di Napoli, e delle sue tragedie. Napoli è soltanto un nervo scoperto. Non è lei soltanto - una sua parte - che rischia di perdersi. È l´intero Paese ad essere scosso da un brivido che viene dal suo fondo più buio, e che in qualche caso sta assumendo i tratti di una vero e proprio riflesso condizionato. Paura di non farcela, di non riuscire a padroneggiare il proprio destino, di vedere polverizzati i legami sociali su cui si pensava di poter contare, di non sapere più gestire problemi anche elementari di convivenza, di confronto con la diversità. Paura di vedersi ridotti i propri spazi di vita, le proprie risorse, il proprio tempo. Paura di scoprire nell´"altro" il nemico, alla soglia di casa.
Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di dire che se questa "sindrome del nemico" si radica nei nostri comportamenti collettivi, se diventa una parte - anche minoritaria ma pur sempre attiva - del nostro contesto culturale, del nostro vissuto sociale, del nostro sfondo mentale, allora noi saremo perduti. Perduti come Paese, perduti come società viva e capace di innovazione, di slancio, di sviluppo. Perduti, in una parola, come protagonisti sulla scena del mondo. Diventeremo una comunità chiusa e ringhiosa - come non siamo mai stata - senza futuro e senza storia.
Questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con problemi effettivi di gestione della sicurezza urbana e di repressione dell´illegalità, che dobbiamo saper affrontare in modo efficiente e realistico, e anche diverso rispetto al passato. In questo senso, ogni sforzo di razionalizzazione delle misure e dei provvedimenti da parte del nuovo governo non potrà che essere benvenuto. Ma ha molto a che fare invece con un´ideologia della serrata, (qualche giorno fa ho scritto "del guscio"), della chiamata a raccolta delle forze "sane", della difesa di una nostra identità immaginata come minacciata e in pericolo, di un rifiuto di tolleranza e di confronto, che si sta pericolosamente diffondendo, che ha i suoi propugnatori e adepti, e che rischia di immettere tossine nei nostri pensieri di cui proprio non avremmo bisogno.
E c´è qualcosa di più da aggiungere. Questa non è solo una questione di etica - che pure non sarebbe cosa da poco. È in gioco la nostra capacità e la nostra volontà di continuare a rimanere un Paese moderno, o di uscire fuori dal vento della storia. Chiusi e intolleranti si muore. Aperti e accoglienti si vince. Non c´è altra verità. E dunque il problema non è di scegliere fra due strade entrambe praticabili, ma di come attrezzarci per poter percorrere l´unica possibile. Come far sentire meno "soli" i nostri cittadini, meno abbandonati a se stessi nella gestione di ogni convivenza culturalmente più complessa, più rassicurati dalla vicinanza dello Stato e delle istituzioni. Più protetti, e più aperti. La desolazione sociale di Ponticelli genera mostri. Da entrambi i lati. È quello il male assoluto, è lì che l´"altro" diventa il nemico. Quanto è accaduto parla di noi e delle nostre impotenze, molto di più che dei rom e della loro cultura.