Repubblica: La vera missione della scuola
la proposta va formulata meglio: si tratta di portare nella scuola la religione ma all´interno della storia culturale, non all´esterno
Adriano Prosperi
La proposta di introdurre nelle scuole un insegnamento di religione islamica fatta dal viceministro Urso è un tentativo di rompere il cerchio di un dialogo tra lingue non comunicanti.
Per questo va salutato come un avvio positivo da raccogliere e approfondire. Non tutti sono d´accordo, naturalmente, ma la discussione che è nata è comunque interessante. Per esempio, quando il cardinale Ersilio Tonini rigetta questa idea lo fa con un argomento che si presta invece a sostenerla: «Pensare che l´Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore. L´Islam ha mille espressioni, collegamenti, apparentamenti: insomma con i valori della nostra civiltà non ha niente a che vedere». Proviamo a sostituire nella prima frase la parola «Islam» con la parola «Cristianesimo»: quante sono oggi le espressioni e le interpretazioni del cristianesimo, non solo nella conoscenza e coscienza dei singoli cristiani, nell´etica privata e nelle leggi degli stati, ma anche e soprattutto nelle chiese e nei movimenti che si dichiarano cristiani? Immaginiamo che il cardinale volesse dire «cattolicesimo». Ma il carattere monolitico, anzi totalitario del cattolicesimo, come ebbe a dire Papa Pio XI e come prima di lui scrisse fra Paolo Sarpi che coniò l´antenato del termine totalitarismo («totatus») è proprio quello che all´atto di nascita della tolleranza religiosa valse al cattolicesimo una considerazione a parte: «I papisti - scrisse John Locke nel «Saggio sulla tolleranza» del 1667 - non devono godere i benefici della tolleranza perché, dove essi hanno il potere, si ritengono in obbligo di rifiutarla agli altri». Lo sappiamo bene in Italia. Quanto poi al fatto che l´Islam non abbia niente a che vedere con la nostra civiltà, si tratta di un´affermazione che se fosse fatta da uno studente di storia di scuola media svelerebbe l´esistenza di un preoccupante «debito formativo». Si tratta di schieramenti di battaglia che non portano lontano. Bisogna anche in questo caso accogliere l´invito autorevole lanciato da Gustavo Zagrebelski dalle colonne di questo giornale a mettere un freno allo «scatenamento delle energie peggiori» riflettendo invece al respiro lungo della vita civile che in materie costituzionali deve guardare al di là della durata di un governo e di un leader e non tener conto delle violenze verbali dei leghisti che, ieri pagani oggi cattolici, alzano la voce sulla religione per fare cassetta alle elezioni più vicine. L´obbiettivo che abbiamo di fronte quando di queste cose si parla nel contesto civile e politico e non all´interno di una chiesa è quello di attuare in modo adeguato ai bisogni dei nostri tempi e alla nostra realtà il principio del diritto alla libertà religiosa: un diritto a cui la cultura italiana ha dato un contributo grande e sostanziale fin dai tempi delle guerre di religione del ´500 e che oggi, secondo la Costituzione italiana, significa «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata» (art. 18), inclusa l´istituzione di «scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo stato» (art.33). Certo, con quelle dichiarazioni volute da tutti i padri costituenti è in contrasto una situazione di fatto e di diritto a tutti nota. Nella scuola pubblica c´è oggi un insegnamento denominato «Religione» impartito da insegnanti formati e autorizzati dalla Chiesa cattolica ma pagati dallo stato. Questo insegnamento non è obbligatorio ma l´insegnante concorre alla valutazione dell´allievo insieme agli altri in una forma che - secondo la recentissima dichiarazione del ministro Gelmini - si appresta a diventare quella piena del voto. Ma la realtà del paese cambia: aumentano gli immigrati e i cittadini italiani di altre religioni, e specialmente quelli di religione islamica. Da qui l´idea di spezzare l´autismo di una politica che criminalizza e sfrutta gli immigrati in mille modi, pratica lo scontro di civiltà, alimenta e strumentalizza paure. Si propone un insegnamento scolastico della religione islamica nelle scuole pubbliche come primo passo per l´integrazione dei ragazzi di quella cultura. Lo scopo è eccellente, il mezzo ha difetti evidenti: quell´ora settimanale non solo non garantirebbe parità di trattamento per tutte le religioni ma dividerebbe fisicamente e culturalmente gli allievi islamici dagli altri nel momento fra tutti delicato dell´insegnamento della religione. E la moltiplicazione a raffica degli insegnamenti «religiosi» per garantire i diritti di altre minoranze sarebbe non solo difficile da attuare ma anche controproducente rispetto all´obbiettivo di far dialogare in un´unica scuola pubblica i portatori di culture diverse. Un sistema a compartimenti stagni renderebbe permanenti le divisioni rischiando di far emergere una divisione non solo religiosa ma civile e sociale dai frutti avvelenati. Ne troviamo conferme nella storia e nella cronaca. Le città tedesche che nell´età delle guerre di religione garantirono libertà di culto e spartizione equa di cariche tra cattolici e protestanti pagarono la pace con la perpetuazione della divisione culturale e il blocco dello sviluppo civile. E la cronaca recente ci dice che i terroristi islamici appartengono in genere alla seconda e terza generazione di immigrati e nutrono l´odio di chi, crescendo nei ghetti, si è sentito cittadino di serie B. Ma c´è una frase interessante detta dall´onorevole Urso, che ha parlato di «un´ora di storia della religione islamica». La storia, che per tanto tempo nel paese di Giambattista Vico, di Benedetto Croce, di Antonio Gramsci ha retto l´asse centrale dell´insegnamento scolastico, oggi è avvilita a campo di battaglia tra mute rabbiose intente a marcare opposti territori. Intanto crescono materie di carattere sistematico e astorico: la religione, i diritti, l´etica e così via. Questo è il più grave e più inavvertito segno della peste fondamentalista: si è perso il senso della nostra realtà di esseri immersi nel flusso di quel tacito, infinito andar del tempo che investe e muta ogni cosa, che fa sì che la nostra società e le nostre religioni siano quelle dei nostri tempi e non quelle dei nostri padri. E chi più tuona di voler tutelare l´«identità cattolica» è proprio il neopaganesimo del nostro tempo, se è vero che, come ha scritto uno storico che se ne intende, «il paganesimo è il culto del potere politico, della ricchezza, della forza fisica» (Jan Assmann, «Dio e gli dèi», Il Mulino 2009). Dunque la proposta va formulata meglio: si tratta di portare nella scuola la religione ma all´interno della storia culturale, non all´esterno. Solo qui può esserci posto per una conoscenza dell´Islam e del cristianesimo come realtà storiche portatrici di valori ideali che, se depurati dall´interferenza e dall´intolleranza dei poteri politici ed ecclesiastici, potranno alimentare di nuovi succhi vitali l´Italia di domani.