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Repubblica-Le buone notizie dell'Università

Le buone notizie dell'Università ALDO SCHIAVONE I dati contenuti nel 5? rapporto del Comitato di valutazione del sistema universitario (Cnvsu), resi noti da qualche giorno, meritano molta a...

10/08/2004
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la Repubblica

Le buone notizie dell'Università

ALDO SCHIAVONE

I dati contenuti nel 5? rapporto del Comitato di valutazione del sistema universitario (Cnvsu), resi noti da qualche giorno, meritano molta attenzione. Sono una fotografia dell'Università che sta cambiando, e per la prima volta le buone notizie prevalgono sulle cattive. Le nuove iscrizioni (353mila) sono aumentate del 19,6% rispetto al 2000; ormai il 76% dei diplomati vanno all'università, contro il 66 del 2000: valori finalmente quasi europei, da sistema universitario davvero di massa. Nell'ultimo anno, poi, il numero dei laureati ha superato i 200mila, con un aumento del 15% sul 2001 e del 26 rispetto al 2000. Ed è aumentata insieme la percentuale dei laureati che hanno raggiunto il titolo rispettando il numero d'anni previsto dal piano di studi: dal 6,5 del ?99 al 9,4 del 2002. Mentre sono diminuiti gli studenti "inattivi", che in un anno, cioè, non hanno dato nemmeno un esame (62mila nel 2002-3), concentrati soprattutto a Sociologia, Giurisprudenza e Lettere e Filosofia: per la prima volta meno degli studenti che, nello stesso periodo di tempo, non hanno rinnovato la loro iscrizione (65mila).
Sembra di essere, insomma, di fronte a qualcosa di simile a una inversione di tendenza, che rende meno sensibile la distanza della nostra Università da quella dei paesi più avanzati. Che questo progresso vada collegato ai primi effetti della riforma sembra indiscutibile, anche se è passato ancora un periodo troppo breve per poter trarre conclusioni definitive, e bisognerà aspettare per vedere se molti indicatori, che oggi sembrano tornati positivi, manterranno questo segno. Ma certo non si vedono, da simili cifre, molti argomenti per alimentare la facile vena dei catastrofisti, dei profeti di sciagure e dei tardivi laudatori dei bei tempi andati, che abbiamo dovuto ascoltare in questi ultimi anni. Certo, i numeri non ci dicono ancora nulla sulla qualità, che si dovrà verificare con attenzione. Ma non si deve mai dimenticare che senza quantità adeguate (di laureati, di iscritti, di studenti regolarmente in corso) non c'è futuro. E che ogni discorso appena sensato non può partire dal confronto - solo demagogico - fra la qualità intellettuale degli studenti di una volta (una cerchia di poche migliaia di privilegiati), confrontata con quella delle valanghe d'iscritti d'oggi (milioni), ma deve chiedersi piuttosto come sia possibile continuare a formare élite di meritevoli e più dotati, e insieme assicurare quella professionalizzazione di massa delle nuove generazioni che è il compito ineludibile che abbiamo di fronte, e che è esattamente il nodo che il nuovo ordinamento ha cercato di affrontare.
C'è piuttosto un'altra considerazione da fare. Se la riforma Berlinguer-Zecchino sta cominciando a produrre qualche primo risultato, occorre darle tempo, e verificarne con calma gli effetti almeno sul medio periodo. Bisogna che le Università, per dir così, la "digeriscano", che i nuovi ordinamenti vadano completamente a regime, che il rapporto fra percorsi di studio triennali e quinquennali venga messo davvero alla prova (finora non s'è avuto il tempo di farlo), che s'arrivi all'utilizzazione più razionale del personale docente in rapporto ai nuovi obiettivi. È fuori di dubbio che il sistema che stiamo ora mettendo in campo possa essere ancora migliorato, rispetto alla configurazione che vi abbiamo dato nel 2000, e che alcune soluzioni adottate non convincano, e debbano essere riviste.
In questa direzione, alcune delle modifiche introdotte da un recente decreto del ministro Moratti vanno accolte positivamente, come va considerata con favore l'ispirazione di fondo del provvedimento, d'operare in continuità con la riforma del centrosinistra, senza stravolgerne l'impianto. E, a esempio, può essere una buona idea quella di trasformare, dovunque possibile, il 3+2 in un 1+2+2, prevedendo cioè un anno comune per percorsi didattici affini; come quella di accentuare la separazione, dal punto di vista formativo, fra triennio e biennio, distinguendo il conteggio dei crediti (non 300 complessivi, ma 180+120). Mentre devo ripetere che rimane inspiegabile l'eccezione che s'è voluta introdurre per le Facoltà di Giurisprudenza (una specie di 1+4, che la commissione preposta a fissare i curricula sta interpretando come un drastico restringimento rispetto alle scelte delle Facoltà): una vera restaurazione.
Ma al di là di questi rilievi, quel che sarebbe adesso importante, è che queste ultime novità - anche ove opportune - non si traducessero in ulteriori vincoli per l'autonomia delle Università; in complicati adempimenti da assolvere "in corsa", durante una sperimentazione già abbastanza complessa. Che la loro applicazione, cioè, non fosse un obbligo per gli atenei - almeno per ora - ma solo una possibilità in più, in grado d'allargare il ventaglio delle opzioni già offerte dalla prima versione della riforma. Sarebbe ancora facile farlo: ci pensi, il ministro. Ne guadagnerebbe la capacità di autocorrezione che ciascuna Università deve acquisire rispetto al profilo finale della propria offerta formativa. Non è cosa da poco.