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Repubblica-LIBERA INFORMAZIONE UNA MATERIA PROIBITA

IL SABATO DEL VILLAGGIO LIBERA INFORMAZIONE UNA MATERIA PROIBITA GIOVANNI VALENTINI ...

25/10/2003
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la Repubblica

IL SABATO DEL VILLAGGIO
LIBERA INFORMAZIONE UNA MATERIA PROIBITA
GIOVANNI VALENTINI


"L'ideale dell'informazione obiettiva, quella che comporta l'obbligo di dire le cose come stanno, senza secondi fini, non ha mai conquistato l'animo dei giornalisti italiani".
(da "Gianni Agnelli visto da vicino" di Piero Ottone - Longanesi ' C. 2003, pag. 70).

Mentre l'Italia scivola all'ultimo posto in Europa (il 53° nel mondo) nella graduatoria sulla libertà di stampa compilata dall'associazione francese "Reporters sans Frontiers", la facoltà di Scienze della comunicazione dell'università La Sapienza di Roma si vede costretta a sospendere tutte le attività didattiche e a rinviare l'inizio delle lezioni per l'anno accademico 2003-2004 per mancanza di fondi e strutture. E contemporaneamente, con la "piena adesione" e partecipazione del corpo docente, gli studenti indicono per lunedì 27 ottobre un sit-in di protesta davanti alla sede del Rettorato.
Non c'è ovviamente un nesso diretto fra la bocciatura del nostro Paese, a causa del conflitto di interessi e della legge Gasparri sulla tv, e un tale caso di mala-università. Ma anche questa coincidenza può essere a suo modo emblematica perché s'inscrive in un contesto di indifferenza e insensibilità diffuse, soprattutto a livello politico e di governo, nei confronti di una questione democratica fondamentale com'è quella dell'informazione.
È un paradosso che all'opinione pubblica internazionale l'anomalia italiana risulti ancora più chiara ed evidente che in patria. E perciò è un esercizio di puro cerchiobottismo disquisire sulla sede in cui il maestro Claudio Abbado ha fatto recentemente la sua denuncia pubblica in proposito, ricevendo il "Praemium imperiale" a Tokyo, per poi contestargli una "nota stonata" o una presunta caduta di stile: quando sono in gioco valori del genere, c'è poco da spaccare il capello in quattro e sottilizzare sulla sede o sullo stile. Anche perché il presidente del Consiglio non si sforza certamente di dare il buon esempio, chiedendo durante un viaggio ufficiale all'estero il licenziamento dei giornalisti televisivi a lui sgraditi oppure destituendo di fatto un allenatore della Nazionale di calcio come Dino Zoff.

* * *

In un quadro siffatto, il caso della Sapienza merita di esser raccontato a parte perché rappresenta un paradigma del degrado a cui è arrivata ormai l'università italiana e nello stesso tempo misura il livello sotto il quale rischia di scendere la "cultura critica dell'informazione". Istituita nel 2000, al posto di un semplice corso di laurea di Sociologia, Scienze della comunicazione è cresciuta in tre anni da 5.198 iscritti a 14.579: e a tutt'oggi, le matricole per il nuovo anno accademico sono più di 2.500. In base alla consistenza numerica, è diventata così la terza facoltà (dopo Giurisprudenza e Ingegneria) dell'università romana, la più grande d'Europa e forse del mondo con i suoi duecentomila studenti.
A che cosa è dovuto il boom della nuova facoltà? Verosimilmente alla circostanza che, nella moderna società della comunicazione, le competenze e i servivi immateriali di questo settore vanno assumendo un'importanza via via maggiore rispetto a quelli tradizionali della produzione materiale. E di conseguenza, gli interessi, le attese, le aspettative dei giovani si rivolgono sempre più verso il mondo della conoscenza, dell'informazione, dello spettacolo: non a caso, all'inaugurazione dell'anno accademico, la prolusione ufficiale di Tullio De Mauro è stata seguita da una suggestiva lezione di Lucio Dalla sullo show multimediale della sua "Tosca", un modello di contaminazione dei linguaggi, con un mix avvincente di musica, danza, cinema e televisione.
Allo stato attuale i docenti di ruolo della facoltà, di cui è preside il sociologo Domenico De Masi, sono appena 68. Per far fronte al rapido aumento della popolazione studentesca, è stato necessario perciò ricorrere ai cosiddetti "professori a contratto", professionisti ed esperti esterni della materia, incaricati di svolgere corsi specializzati per un compenso poco più che simbolico (dai 3.500 ai 7.000 euro lordi all'anno, secondo il numero delle ore d'insegnamento). Ma, nonostante l'esiguità della retribuzione, finora queste prestazioni sono state pagate con molto ritardo e quelle dell'anno scorso rischiano di non essere pagate affatto, in seguito ai tagli dei finanziamenti statali decisi dal governo.
È vero che i professori a contratto sono arrivati così a 104 e che il loro numero appare oggettivamente abnorme rispetto a quello dei docenti di ruolo. Sta di fatto però che qui, con un corpo complessivo di 172 professori per circa 15 mila allievi, il rapporto docenti/studenti diventa di 1 a 85 contro la media di 1 a 35 di tutta l'università italiana. E c'è da aggiungere che le tasse versate dagli iscritti a Scienze della comunicazione ammontano a oltre 15 milioni di euro, mentre gli esborsi dell'università per sostenere le spese della facoltà non raggiungono i 6 milioni.
Ora alcuni "professori a contratto", invitati dal Consiglio di facoltà a partecipare al nuovo anno accademico, hanno già manifestato la propria disponibilità al volontariato (tra cui - immodestamente - anche il sottoscritto, incaricato di tenere un corso di 36 ore sul "Giornalismo online"). Ma, a parte il fatto che evidentemente non si può chiedere a tutti un impegno a titolo gratuito, resta comunque il problema delle strutture, cioè delle aule, dei laboratori, delle biblioteche. Basterà dire che, contro una dotazione attuale di appena 3.600 metri quadri, ne occorrerebbero in realtà circa 25 mila per garantire condizioni minime di funzionalità e sicurezza. Da qui, appunto, la decisione unanime del Consiglio di facoltà di sospendere le attività didattiche, fino a che la situazione non sarà stata risolta.

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Se dunque la facoltà di Scienze della comunicazione dell'università La Sapienza di Roma, la più grande del genere esistente in Europa, minaccia di chiudere i battenti per mancanza di fondi e di spazi; se il conflitto di interessi e il deficit di pluralismo fanno precipitare il nostro Paese all'ultimo posto nella graduatoria europea; se l'ideale dell'obiettività - come scrive Piero Ottone nel suo ultimo libro, citato all'inizio di questa rubrica - non appartiene alla tradizione del giornalismo italiano, dove mai si formeranno i nuovi professionisti della comunicazione? Come potrà crescere una "cultura critica dell'informazione"? E soprattutto, quando riusciremo a liberarci di questo regime televisivo che ottunde l'intelligenza, ipnotizza una buona parte dell'opinione pubblica nazionale e narcotizza la sua coscienza civile?

(sabatorepubblica.it)