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Repubblica-Milanoi-"Così ho insegnato agli islamici a credere nella scuola pubblica"

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16/09/2005
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la Repubblica

Pagina VII - Milano
Lidia Acerboni, professoressa in pensione, per due anni ha coordinato le lezioni in italiano in via Quaranta
"Così ho insegnato agli islamici a credere nella scuola pubblica"
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"Non bisogna forzare i tempi, noi ci abbiamo messo 24 mesi per creare un clima di fiducia nelle famiglie delle 14 giovani"
TERESA MONESTIROLI


"La partenza delle famiglie è una sconfitta per tutti. Non voglio colpevolizzare nessuno, ma se i genitori manderanno i loro figli in Egitto vuol dire che abbiamo fallito tutti". È amareggiata Lidia Acerboni, insegnante di italiano in pensione, che per due anni ha coordinato il gruppo di professori che ha portato le quattordici ragazze musulmane fuori da via Quaranta, in una scuola statale.
Sarà difficile portare fuori tutti i bambini da via Quaranta?
"Spero di no, ma penso di sì".
Perché?
"È successo tutto troppo velocemente. Temo che pochi giorni non siano sufficienti per una piena consapevolezza di quello che Dutto e le istituzioni scolastiche stanno offrendo a queste famiglie. Così si rischia una reazione di rifiuto".
Cosa bisognerebbe fare, invece?
"Dargli del tempo. Noi ci abbiamo messo due anni a creare un clima di fiducia con le famiglie delle quattordici ragazze. Ora abbiamo davanti circa cinquecento bambini e centinaia di genitori, non si può pretendere che la situazione si risolva in una settimana".
Come avete conquistato la loro fiducia?
"Abbiamo fatto molti incontri, abbiamo instaurato un dialogo con le famiglie e i ragazzi, gli abbiamo spiegato che la strada della scuola statale era più facile di quella di un'istruzione privata con gli esami alla fine di ogni anno".
E li avete convinti?
"Non c'è stato bisogno di convincerli. Hanno capito da soli che quella era la strada migliore. Erano i genitori i primi a voler far studiare in italiano le loro figlie, ma non volevano mandarle alla scuola pubblica insieme agli altri. Poi, dopo un anno di lezioni in un centro di formazione della Regione, le barriere sono cadute da sole".
Ci sono altre famiglie pronte a uscire da via Quaranta?
"La nostra esperienza è stata molto utile perché, al di là del successo dei protagonisti di questa vicenda, ha portato la comunità a condividere l'idea che tutti i ragazzi che, terminata la terza media, scelgono di restare nel nostro paese, dovranno frequentare le scuole statali".
La vostra esperienza però riguarda ragazze di 15-16 anni. Crede che con i bambini delle elementari e delle medie sarà più difficile?
"Certo. Quando si tratta di bambini i genitori sono sempre più protettivi. La diffidenza di queste famiglie è la stessa che porta i genitori italiani a iscrivere i propri figli in una scuola privata o confessionale. Cercano un ambiente più protetto".
Di cosa hanno paura le famiglie di via Quaranta?
"Le loro preoccupazioni sono soprattutto l'educazione, i costumi, le abitudini. Non hanno mai avuto dubbi sulla validità dell'istruzione italiana".
Quando è entrata la prima volta in via Quaranta?
"Due anni fa. Sono stata contattata da alcuni amici che già lavoravano dentro perché era nato un problema specifico: bisognava aiutare un gruppo di ragazze che avevano terminato la terza media a preparare gli esami di idoneità in un liceo linguistico. Ho organizzato il primo laboratorio, trovato gli insegnanti abilitati e contattato le scuole dove avrebbero sostenuto gli esami e dove, al pomeriggio, facevano lezione alle ragazze".
I genitori hanno accettato facilmente?
"Certo. Erano ben felici che ci fossero degli insegnanti italiani a preparare i loro figli".
Perché allora non le hanno iscritte direttamente a scuola?
"Volevano che le ragazze continuassero a studiare ma avevano delle riserve a far frequentare loro il liceo italiano".
Poi cos'è successo?
"L'anno successivo siamo riusciti ad avere un finanziamento della Provincia e a portare il gruppo in un centro di formazione professionale due mattine e quattro pomeriggi la settimana per sei mesi".
Intanto continuavano a frequentare via Quaranta?
"Solo sette su quattordici, perché avevano ancora bisogno di assistenza nello studio. Per le altre invece abbiamo insistito affinchè studiassero a casa".
È soddisfatta del risultato?
"Molto. Anche per me è stata un'esperienza nuova".