Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Repubblica-Napoli-cominciavano gli anni Sessanta e noi eravamo felici

Repubblica-Napoli-cominciavano gli anni Sessanta e noi eravamo felici

In prima liceo il più lungo sciopero della mia scuola: cominciavano gli anni Sessanta e noi eravamo felici "Cara prof, non siamo schiavi" la rivoluzione entra in classe ...

02/01/2005
Decrease text size Increase text size
la Repubblica

In prima liceo il più lungo sciopero della mia scuola:
cominciavano gli anni Sessanta e noi eravamo felici
"Cara prof, non siamo schiavi" la rivoluzione entra in classe
Ci battemmo per avere l'intervallo, per eliminare, noi ragazze, il grembiule, e i ragazzi la giacca, per gestire la nostra festa di fine anno senza intervento di professori, per eleggere rappresentanti di classe
Prima gli scioperi erano gestiti dai fascisti, che allora si chiamavano missini ed erano stati per Trieste libera. Ma non mi piacevano quelle brutte facce che venivano sotto scuola, di ometti seri e tristi
Ingiusto era il modo in cui ci trattavano i professori, quelle interrogazioni terroristiche, quell'angoscia...
ANNA SANTORO


L'anno in cui si verificò il più lungo sciopero della mia scuola ero in prima liceo. Iniziavano gli anni Sessanta e noi eravamo felici. Ci battemmo per avere l'intervallo, per eliminare, noi ragazze, il grembiule, e i ragazzi la giacca, per poter gestire la nostra festa di fine anno senza intervento di professori, per eleggere rappresentanti di classe e per tenere riunioni in orario scolastico.
Gli anni precedenti, gli scioperi erano stati gestiti dai fascisti, che allora si chiamavano "missini", ed erano stati per "Trieste libera". Io ero al ginnasio e approfittai degli scioperi per andarmene in giro con i ragazzi. Non che non mi interessasse la patetica storia di una città italiana in mano allo straniero, ma non mi piacevano quelle brutte facce che venivano sotto scuola. Non erano ragazzi ma ometti tristi e seri, vestiti di nero, qualcuno col pizzetto e i baffetti, e ci davano ordini: fate questo e fate quello. Avevano quasi tutti un'espressione esaltata e ci guardavano con aria altezzosa e con un fondo di disprezzo, soprattutto a noi ragazze. Insomma non mi piacevano.
Ma quando andai al Liceo e cominciai con altre ragazze e altri ragazzi a discutere di noi, dei nostri professori, di quello che studiavamo e di come lo studiavamo, quando cominciammo a "fare le riunioni", a incontrarci, a scherzare tra noi, a prendere cotte, allora si aprì l'epoca in cui ci si batteva "contro le ingiustizie" e fu magnifico.
Ingiusto era che non avevamo i nostri spazi, i nostri tempi, che dovevamo sempre obbedire, non potevamo discutere di ciò che studiavamo né di quello che vedevamo accadere nella nostra città e nel mondo. Ingiusta era la povertà, quei vecchietti a ogni angolo che chiedevano l'elemosina, quei bambini vestiti di stracci, quei vicoli stretti e bui e sporchi, ingiusto era il modo in cui ci trattavano i professori, quelle interrogazioni terroristiche, quell'angoscia continua di fronte ai doveri scolastici, ingiusta era l'educazione bigotta, gli orari controllati, i genitori autoritari.
L'abitudine di incontrarsi tutti alla fine delle lezioni e di rimanere insieme discutendo, scherzando, corteggiandoci, fu per gli adulti un'offesa personale. Una rivoluzione.
I genitori si arrabbiavano per mille cose e la frase che si ripeteva in ogni casa era "ai miei tempi?": ai loro tempi si rispettavano i genitori (qualcuno si vantò di aver dato per anni il "voi" ai genitori), si chiedeva il permesso per alzarsi da tavola, si reputava la scuola un luogo sacro e la parola dei professori era legge.
Noi rispettavamo alcuni professori, quelli bravi che non dovevano urlare o impartire punizioni per interessarci, ma gli altri, quelli meschini, li odiavamo e li sfidavamo apertamente. E poi noi leggevamo tanti libri, ma fuori di scuola, e di questi libri discutevamo tra noi, questi ci scambiavamo, questi amammo. In quanto ai poveri, a sentire gli "adulti", sotto ai materassi quei vecchietti nascondevano milioni, i bambini si affittavano, e chi voleva lo trovava il lavoro.
La "rivoluzione" crebbe in pochi mesi e continuò a crescere negli anni successivi. Ma quella è un'altra storia. Tutta da scrivere ancora e in fondo malinconica.
Questo è il ricordo della prima riunione dei rappresentanti di classe, della tenerezza che mi evoca l'ingenuità di tutti noi, la nostra impreparazione e il nostro entusiasmo. Eravamo in un mondo che ai giovani non dava alcuna attenzione. In qualche modo era meglio di ora: ora i "giovani" sono citati in continuazione e il problema è proprio questo. Uno dei problemi. A noi, invece, così oppressi controllati e invisibili, bastava decidere di ribellarci. Con lo sciopero avevamo ottenuto di svolgere le riunioni in orario scolastico e che fosse rappresentante chi lo desiderava. Non c'erano ancora i famigerati Decreti Delegati che sancirono certe libertà ormai conquistate ma ne circoscrissero anche i limiti.
Io ero la rappresentante della mia classe ed ero una biondina con la coda di cavallo. Per la prima riunione, all'ora stabilita ci incontrammo avanti all'aula di scienze. Quella sì che era simpatica. Si andava per vedere diapositive e filmati - e nel buio sugli scanni a emiciclo, del tipo che poi all'Università mi divennero tanto familiari, ce ne facevamo risate - oppure pietre, esperimentini di chimica e cose del genere. E c'erano Eustachio e Egidio. Eustachio era il nome che avevamo dato al nostro scheletro, sul quale il professore di biologia ci faceva contare le ossa. Egidio, il tecnico di laboratorio, sulla sessantina, sempre con quel pullover grigio tutto abbottonato sulla camicia bianca e con quella giacca pendente ai lati, era un uomo silenzioso e preciso e certe volte lanciava strani sguardi a quella bestia del mio professore di chimica e biologia: sono sicura che anche lui ne pensasse molto male.
Quel giorno della nostra prima riunione, ci sedemmo nei banchi, ci guardammo perplessi e decidemmo che il primo atto sarebbe stato di andare a chiamare gli altri. Così ci dividemmo le aule e partimmo.
Permesso? Avanti. Entro nella prima classe: Scusi, potrebbero uscire Carlo De Rosa e Maria Minicucci? È per la riunione dei rappresentanti di classe? Sì cara, un momento che finisco di spiegare.
Busso alla seconda classe: Permesso? Avanti. Scusi, potrebbero uscire - rapido sguardo al foglietto - Luigi Vanzini e Roberta Di Maio? È per la riunione dei rappresentanti di classe. I rappresentanti di classe? Non ne so niente. Ragazzi, cosa è questa storia? Sì, professore, è la riunione... Va bene, va bene. Sono cose dell'altro mondo. Va bene. Di Maio è assente. Vanzini, tu puoi andare.
E così mi faccio tre, quattro classi. Al quinto "permesso?", nessuna risposta. Entro: Scusi, potrebbero uscire Giorgio La Rotonda e Michele Troncone? Tu chi sei? Sono la rappresentante della prima D. È per la riunione dei rappresentanti? Rappresentanti di che? I rappresentanti di classe.
Lei mi fissa e scuote la testa: Ti pare modo? Di che? Ti pare modo di entrare? Ho chiesto permesso. Hai chiesto permesso? Sì, ho chiesto permesso. E chi te lo ha dato? Dimmi, chi ti ha dato il permesso di entrare? Ho forse detto "avanti"? qualcuno ha detto "avanti"? No, ma...è per la riunione, il preside ci ha dato... Gesù, comincio a impappinarmi e a diventare rossa. E quella continua: A me delle riunioni, delle assemblee e, guarda, anche del preside, non me ne importa. Io qui sono la regina, la padrona. Capito?
Questo si chiamava parlar chiaro. Che se ne fregasse del preside mi faceva piacere, peccato fosse così odiosa. Chi si credeva di essere, la padrona veramente?
Dimmi un po' - riprende - se a casa tua viene uno alla porta e chiede della tua cameriera, tua madre che fa?
Bene, io sono lì, in quella terza maschile con tutti gli occhi su di me, mi viene da balbettare e sono tutta rossa. Ho beccato nientemeno la mitica professoressa Di Giulio, con i suoi occhietti celesti e duri, il pellicciotto strapazzato, i denti in fuori, il notorio odio per le ragazze, e quella aria presuntuosa e prepotente che la faceva stimare la professoressa più severa della scuola. Era la più brava, ammettevano i suoi alunni, ma guai a farla arrabbiare. Va bene, mi dissi, ma ora stava esagerando: Per prima cosa - deglutisco - per prima cosa gli alunni non sono camerieri e poi - mi fermo, lei mi guarda fisso - e poi i camerieri non sono schiavi e mia madre se viene qualcuno a cercare Teresa lo fa entrare e la chiama.
Tra i ragazzi ci fu brusio. Scommetto che quelli credevano che me ne sarei andata zitta zitta. Oh beh, chi era poi questa signorina Di Giulio? Non era neanche la mia insegnante!
Lei mi guarda. Io la guardo. Anzi, dato che sono rimasta sulla porta con il battente aperto, faccio un passo avanti e senza girarmi lo accosto alle mie spalle. È un gesto di decisione, quasi minaccioso.
Ora tu esci e dici ai tuoi compagni che la professoressa Di Giulio deve spiegare. Abbiamo l'autorizzazione del preside. Ti ho detto che... Sì, che lei è la regina, però... Però cosa? ? però la riunione l'abbiamo guadagnata con un mese di sciopero.
Lo dico a testa alta e senza abbassare lo sguardo. Nell'aula c'è silenzio e i ragazzi guardano ora me ora lei. Anche lei mi guarda severa ma a un tratto sono certa di vederle una piccolissima piega ai lati della bocca e un barlume divertito negli occhi.
Bene, ragazzi, andate, ma ? si rivolge a loro continuando a fissare me con quegli occhietti beffardi - domani sarete interrogati.
Questi due benedetti La Rotonda e Troncone - e chi li conosceva? - a queste ultime parole si guardano incerti. Io fremo: Il Preside li giustificherà, mi trovo a dire. Ti ho già detto che io... Il Preside li giustificherà: altrimenti riprendiamo lo sciopero. Vai fuori. E voi, ricordate: domani non ammetto giustificazioni.
Quei due babbasoni non si muovono: Coraggio - dico - Abbiamo fatto sciopero per tanto tempo. Abbiamo vinto e ora... Venite, ci siamo tutti. Coraggio, non fate le pecore. Discuteremo anche di questo, e accenno a lei col mento. FUORI!!! Mentre apro la porta, aggiungo: Sa cosa? Mia madre alle amiche di Teresa offre anche il caffè. Esco e richiudo il battente dolcemente mente lei mi urla dietro non so cosa.
Fuori mi accoglie una piccola folla. Qualcuno è andato dal Preside ma ora torna a dire che non c'è. Io dico che non ne abbiamo bisogno e intanto gli altri continuano a complimentarsi con me: Sei stata brava. Oh beh... Sì davvero, sei stata brava.
E poi si apre quella porta e esce La Rotonda: Oh bene. E l'altro? Paolo in matematica va una schifezza. Io sono il primo della classe. Se anche mi interroga me ne frego. - Mi guarda e aggiunge - Lui è rimasto male per te, che tu pensi che lui è una pecora. Beh? Gesù e come s'è fatta rossa la Di Giulio. Ma che ha detto? Come è andata? Tutto ciò fa sorridere. L'anno successivo sarebbero iniziati scioperi e manifestazioni contro la guerra in Vietnam.


Nonno, cos'è il sindacato?

Presentazione del libro il 5 novembre
al Centro Binaria di Torino, ore 18.

SFOGLIALO IN ANTEPRIMA!