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Repubblica:Nel campus dei ricercatori Glaxo "La nostra vita sospesa senza lavoro

Costa troppo fare ricerca sulle cure per le malattie mentali e troppe sono le incognite

14/02/2010
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la Repubblica

Roberto Mania

DAL NOSTRO INVIATO
VERONA - «E´ la prima volta che vi parlo dopo la notizia che ha devastato il cuore e la mente di ognuno di noi e ha cambiato la nostra vita». Sono le 12 e 10 di venerdì quando Emiliangelo Ratti prende la parola nell´auditorium del Centro ricerche della GlaxoSmithKline alla periferia di Verona, ai bordi dell´autostrada Serenissima Milano-Venezia. Ad ascoltarlo c´è buona parte dei 550 ricercatori che vi lavorano. A Verona è giorno di festa: è il "Venerdì Gnacolor", l´antico carnevale con carri e maschere per il centro storico. Ma qui c´è un´altra atmosfera.
Ratti, jeans, camicia verdolina botton down con colletto sbottonato dal quale sbuca la canottiera bianca, è il capo della Divisione sulle Neuroscienze che la multinazionale britannica del farmaco (99 mila dipendenti nel mondo con un fatturato di circa 30 miliardi e utili in crescita dell´11%) ha deciso di chiudere entro l´anno. Costa troppo fare ricerca sulle cure per le malattie mentali e troppe sono le incognite legate alla sperimentazione, mentre gli azionisti vanno sempre remunerati secondo gli obiettivi. Per Big Pharma la malattia è un business come un altro. Si sa. E poi i generici stanno erodendo sempre più i margini di profitto. Per l´industria mondiale del farmaco è in atto una violenta ristrutturazione. Allora si chiude, se non c´è un ritorno sicuro sugli investimenti. In Italia, ma anche ad Harlow, a nord di Londra; e poi in Croazia, in Polonia, in Canada. Non si torna indietro. Ratti, che comanda anche a Harlow (2.400 persone), lo dice senza giri di parole ai suoi ricercatori, che da una settimana hanno la certezza - come lui, d´altronde - che saranno licenziati. Qui vengono da tutta Italia e da tutto il mondo. Ci sono 17 nazionalità: americani, indiani, coreani, egiziani, spagnoli, olandesi, francesi, tedeschi e altri ancora. Per oltre l´80% sono laureati: biologi, chimici, farmacisti. Il 20% circa è diventato una "coppia Gsk", cioè si sono sposati tra ricercatori e messo su famiglia. Questo è l´unico centro di ricerca integrata in Italia. Questo è un luogo di eccellenza. Il fiore all´occhiello di Verona dal 1990. Ma ora è un caso nazionale, per i posti di lavoro che salteranno, per gli effetti che avrà sull´indotto tradizionale (i fornitori di pipette, solo per fare un esempio) e quello soft (le università), per la perdita di valore in tutto il sistema produttivo.
Dal 4 febbraio, da quando Slaoui Moncef, direttore mondiale della ricerca della Gsk, "il marocchino" come lo chiamano per ripicca i ricercatori, ha annunciato che, «unfortunately», il Centro chiude i battenti, il Campus veronese (c´è anche un asilo per i figli dei dipendenti) vive una sorta di vita sospesa. Nessuno se l´aspettava. Qui c´è uno dei tassi di imprenditorialità tra i più elevati d´Italia, non le piccole aziende del nord-est ma le medie internazionalizzate del lombardo-veneto; qui la crisi è arrivata ma ha colpito meno che in altre zone, la cassa integrazione è cresciuta del 612% contro il 790% del Veneto; qui, prima della recessione, la disoccupazione non superava il 4%.
Ma queste cifre non cambiano i contorni del caso Glaxo. All´assemblea Ratti parla per poco più di mezz´ora. Dice che bisogna «avere il coraggio di guardarsi allo specchio». E da lì ripartire per il futuro, «senza la coperta arancione protettiva di Gsk». Insomma: ciascuno deve rimettersi in gioco sul mercato forte delle proprie conoscenze e della propria esperienza.
Prende la parola Davide e spiega che lui viene da Tivoli, che è stato sradicato e che, come altri, ha fatto propria la realtà di Verona. Ora non ha altra scelta: «Venderò la mia casa sulla quale ho un mutuo e andrò da un´altra parte. Il mio specchio l´ha rotto Gsk!». Applausi. Paolo è il responsabile delle Divisione Information Technology, parla di «catastrofe collettiva», dice di sentirsi dentro «un tunnel in cui non si capisce quale sia la realtà e quale l´illusione». Roberto ha 48 anni si domanda come si possa pensare al futuro «dal niente».
Luciana Romanelli lavora da 22 anni alla Glaxo. Cinquantenne di Ferrara, laurea in Biologia, è sposata con un ex ricercatore tedesco che la Glaxo ha licenziato nella precedente ristrutturazione: «Il 4 febbraio è stato il nostro "11 settembre". Una cosa indescrivibile. Sono stata due notti a piangere. Non ho pensato al futuro, non posso pensare che la ricerca chiuda. Questo della Glaxo era l´ultimo baluardo della ricerca applicata». Il marito della Romanelli ha 51 anni e non ha più trovato un lavoro. Ora tocca a lei cercarne un altro: «Nel mio campo, alla mia età, escludo di poter trovare una nuova occupazione. Siamo troppo, troppo specializzati. Mi adatterò al territorio».
La colpa dell´angoscia che si è impadronita del Campus qui a Verona è anche dei topi. Ma non è una battuta. E´ che i ratti (con la "r" minuscola) non si ammalano come gli umani di depressione, ansia, sindrome bipolare. Ratti la racconta, con passione dello scienziato, come «la scarsa predittività dei modelli animali». Questo è il problema per i ricercatori e per Big Pharma perché - dall´intuizione del ricercatore per arrivare poi alla pastiglia - ci vogliono 15-20 anni, almeno 1,3 miliardi di dollari e la probabilità di fallire è alta. Bisogna cambiare prospettiva: trovare i "marcatori" certi della depressione e degli altri disturbi della psiche. Ma forse non è proprio più tempo di ammalarsi delle patologie del benessere. Anche questa è la Grande Depressione, quella economica.