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Repubblica: Nella casa dei maestri in bilico

"Nel tempo, i docenti sono diventati il capro espiatorio al quale attribuire tutto quello che non piace nella società. La scuola ha smesso di essere un universo protetto"

14/02/2010
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la Repubblica

"Nel tempo, i docenti sono diventati il capro espiatorio al quale attribuire tutto quello che non piace nella società. La scuola ha smesso di essere un universo protetto"

Si chiama sindrome del "burn-out" e colpisce chi lavora in "prima linea": medici, infermieri, vigili del fuoco. È meno noto che anche gli insegnanti ne siano vittime, per molte ragioni: ruolo sociale perduto, bullismo dei ragazzi, ostilità delle famiglie. Siamo andati a vedere l´ospedale psichiatrico parigino specializzato in questa attualissima malattia

ANAIS GINORI

D avid è l´unico uomo del gruppo. Carriera brillante, professore di francese in uno dei migliori licei di Parigi. Poi il crollo. «Non sopportavo più il disprezzo dei genitori. Sembravano provare gusto nell´umiliarmi davanti ai figli». Ha cominciato a soffrire di attacchi di panico, scatti d´ira seguiti da interminabili silenzi. Un collega si è rivolto all´unità psichiatrica del ministero.
Nei corridoi delle scuole è diventato un modo di scherzare tra professori. «Stai attento, finirai a La Verrière». Quaranta chilometri dalla capitale, un grande parco con alberi secolari. C´è un piccolo castello dell´Ottocento con finestre azzurre, usato come ospedale da campo durante la guerra. Intorno, blocchi rettangolari di cemento. Settori A, B e C. Otto padiglioni in tutto. Alcune infermiere fumano al freddo. Un paziente viene portato alla fisioterapia in sedia a rotelle. Al primo piano, le stanze. Non ci sono televisori, l´uso dei cellulari è limitato ad alcune ore del giorno.
Un manicomio unico al mondo. Quando venne creato, nel 1959, doveva essere un sanatorio per la tubercolosi. Ma arrivarono gli antibiotici e l´Institut Marcel Rivière, nome del fondatore della mutua degli insegnanti, trovò una nuova missione. Curare il male oscuro dei professori. Già allora i disturbi psicologici erano la prima causa di malattia tra i docenti. Gli inglesi hanno inventato il termine "burn-out". Insegnanti impazziti, bruciati dal mestiere più importante che c´è. La trasmissione dei saperi. Il più difficile, anche.
Daniel Rechtman lavora da più di vent´anni in questo ospedale. Mille pazienti all´anno, le terapie durano da un minimo di tre a un massimo di sei settimane. Le ricadute sono frequenti. Il suo è l´osservatorio su un sistema in crisi. «Nel tempo - racconta lo psichiatra dell´Istituto - gli insegnanti sono diventati il capro espiatorio al quale attribuire tutto quello che non piace della società». È come se si fossero rotti gli argini e il mondo fosse tracimato nelle aule, con i suoi guai, le sue contraddizioni, i drammi. La scuola ha smesso di essere un universo protetto, un luogo "sacro". Bullismo, vandalismo, assenteismo. La violenza latente che ogni tanto esplode. Il consiglio di stato ha appena decretato il coprifuoco per gli under tredici. Il presidente Nicolas Sarkozy vorrebbe mettere metal detector contro le armi e poliziotti anti-droga in ogni liceo di banlieue. Entre les murs era il titolo del film tratto dal libro di François Begaudeau, tradotto in Italia come La Classe. Le mura della scuola racchiudono un microcosmo che riproduce in piccolo un paese. Ma possono anche diventare una prigione. Proprio il trentenne Begaudeau, dopo la breve esperienza da professore, ha abbandonato il mestiere.
La Verrière è il capolinea. «Qui si arriva sempre quando è troppo tardi», spiega Rechtman. Il ministero dell´Istruzione ha istituito un numero verde per l´ascolto della "sofferenza psicologica", ci sono unità psichiatriche che dovrebbero lavorare sulla prevenzione insieme ai presidi. «Paradossalmente, più della violenza verbale e fisica, gli insegnanti lamentano la perdita di autorevolezza nei confronti delle famiglie e della società, in generale». I professori in Francia sono oltre ottocentomila. «Il loro disagio si scontra con un vecchio pregiudizio. Quello di essere dei privilegiati, con il posto fisso, un buono stipendio, le lunghe vacanze estive».
È andato in frantumi il triangolo - genitori, alunni, insegnanti - che sorreggeva la scuola. Negli ultimi dieci anni le denunce contro professori sono raddoppiate. Il nuovo reato si chiama "molestie pedagogiche". La conflittualità va a periodi. L´esperienza dei medici della Verrière insegna che ci sono picchi durante l´anno. Alla fine di settembre, quando la classe non ha ancora accettato completamente l´autorità del professore. Dopo la consegna delle prime pagelle. E quando sta per concludersi l´anno scolastico, con lo spauracchio delle bocciature. Genitori e docenti sembrano impegnati in un conflitto che li paralizza. Il figlio-alunno sul quale dovrebbero convergere attenzioni positive è invece il ricettacolo di reciproche accuse.
La "classe thérapie" si tiene ogni lunedì. I maestri si siedono in aula. Gli psichiatri li interrogano sul loro malessere. Il martedì e il giovedì ci sono le letture nella biblioteca dell´ospedale. «Esiste una maieutica dei libri», spiega la responsabile, Alice. Ha appena finito di organizzare un ciclo sulle favole delle Antille. Ci sono anche tre postazioni Internet, massimo mezz´ora al giorno.
Alla fine dei Sessanta, i pazienti erano legati, finivano in isolamento, sedati a dosi massicce di insulina. Oggi si lavora invece sul modello della "comunità terapeutica" inventata dallo psichiatra Paul Sivadon. «Ha fatto per la Francia quello che Franco Basaglia ha fatto per l´Italia», ricorda Rechtman. La Verrière è stato il primo manicomio ad "aprire le porte", lasciando i malati mentali più liberi, accompagnandoli in un percorso collettivo di autocoscienza e spingendoli a sfogare frustrazioni attraverso laboratori artistici. Molti pazienti vengono ancora sedati al loro arrivo, le prime cure sono a base di psicofarmaci. Rapidamente, però, partecipano a corsi di pittura, ceramica, scrittura. Al centro del parco c´è un teatro dove gli insegnanti preparano delle recite, cercando di ritrovare sicurezza in se stessi. «Sono come attori che nessuno applaude più», spiega Jean Djemad, il fondatore di Black Blanc Beur, una compagnia di danza hip-hop che organizza spettacoli nell´ospedale.
Nel refettorio, una donna si confida ai commensali. «È il mio secondo soggiorno qui». Calma, rassegnata. «Ho tentato di suicidarmi». Gli altri non replicano, ascoltano in silenzio. C´è una piccola caffetteria dove gli psichiatri fanno la riunione di metà pomeriggio. Non portano il camice bianco, scherzano fra di loro. L´atmosfera non è da caserma. Devono decidere come affrontare la sera, il momento più delicato. Una volta un professore è stato ritrovato di notte, solo, in mezzo ai corridoi. Gesticolava con le mani. Osservandolo si capiva che stava mimando una lezione.
L´elenco delle psicopatologie è lungo. Disturbi della personalità, nevrosi, schizofrenia, ossessioni compulsive. Ci sono anche casi di alcolismo, anoressia, bulimia, automutilazioni. Non sempre le terapie vanno a buon fine. Nel 2008 era stato ricoverato un professore di inglese denunciato perché aveva costretto un alunno a togliersi il berretto in classe. Qualche mese dopo essere uscito dall´ospedale si è suicidato.
Eppure, alla fine del lungo percorso terapeutico, due pazienti su tre tornano nel sistema scolastico. Prima, però, devono affiancare per qualche mese un tutor in una delle scuole convenzionate con La Verrière. L´impatto con la classe è decisivo per capire se il docente è davvero in grado di reggere il faccia a faccia con i ragazzi. Una maestra di medie che aveva ricevuto una pietra sulla testa nel cortile della scuola era tornata al lavoro dopo cinque mesi di terapia. Non ha retto. Da allora, è stata trasferita nei servizi amministrativi del ministero. «Cerchiamo sempre di reinserire i nostri pazienti nell´insegnamento - continua lo psichiatra - perché chi comincia questo mestiere di solito ha un ideale, una vocazione. In generale, è da quello che bisogna ripartire».
Alle spalle della scrivania, Rechtman ha un grosso fascicolo, "Fughe". Molti pazienti arrivano spinti da una moglie, un padre, un collega. Sono loro che lanciano l´allarme. Pochi invece i ricoveri con il trattamento sanitario obbligatorio. «Le nostre porte rimangono sempre aperte», conclude lo psichiatra ricordando il motto del dottor Sivadon: «Questa non è una prigione». Dentro o fuori le mura. Spesso, il confine è davvero sottile.