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Repubblica: Nella trincea della scuola di frontiera "Così abbiamo spento i cellulari"

Tra mode e divieti, nelle classi scoppia la battaglia sulle regole

17/03/2007
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la Repubblica

AVEZZANO (L´AQUILA)

michele smargiassi

Come quei cartelli alla porta delle basiliche. «Stai entrando in una scuola: osserva alcune regole di buona educazione». «Le piace?», s´impettisce Angelo Bernardini, il signore dei divieti, il preside dei mille «non si può». Tre cerchi rossi sbarrati: il primo ovviamente è il divieto di cellulare, «qui li sequestriamo da due anni». Poi c´è il divieto di indossare auricolari. Poi il divieto di berretto. Berretto? «Sempre incollato al cranio, le sembra educazione?». Succede di peggio, nelle scuole italiane. «Il cartello è incompleto. Manca il divieto di fumo. E anche il divieto di ombelico». Come? «I jeans a vita bassa». Certo, in fondo c´è diventato famoso, il preside Bernardini, col divieto di mutanda in vista. Finì su tutti i giornali, persino in tivù, nell´ottobre 2004, per quella circolare intitolata "Dal burqa al sedere scoperto". Si trovò davvero le studentesse in classe col burqa, per protesta. «Solo un foulard», sorride, «erano carine nella foto sul giornale». È un blocco di granito, il preside delle regole ferree. Non si lascia scalfire. Lo chiamano sceriffo? Fa spallucce: «Senza regole la scuola diventa un macello». Lo chiamano fascista? Sospira: «Sono un moderato, voto Udc». Lo chiamano grande fratello? Ride: «Grande zio, vista l´età». Di fatto è il re del liceo scientifico Vitruvio Pollione di Avezzano (uno dei più popolosi della penisola, coi suoi 1530 studenti), sul cui trono sta saldo da diciott´anni.
Non di soli cellulari muore la scuola italiana. Ma di mille piccole e grandi fratture nel triplo ingranaggio che la fa muovere: il rapporto tra insegnanti, studenti, genitori. Qualcosa ha inceppato il meccanismo, e non è più la palingenesi della contestazione aperta, sessantottina.

È il sordo logoramento delle regole, lubrificante della difficile convivenza tra le tre tribù, un tempo tacite perché condivise, ora non più. Dal liceo di Avezzano parte un viaggio nella scuola disassata, perché qui è alla prova in modo emblematico la ricetta che tanti pensano la più efficace: l´inasprimento formale, la minuziosa regimentazione di ogni momento di vita comune. Dall´alto, s´intende. L´ufficio del preside Bernardini è una torre di controllo, un panopticon tecnologico. C´è il monitor delle quattro telecamere di sorveglianza. C´è il microfono collegato con le classi, ogni mattina un annuncio o una riflessione, alla terza ora, preceduto da un campanello che zittisce tutti, insegnanti compresi. «E in quella scatola c´è il phone-jammer». La macchina che blocca i cellulari? «Raggio venti metri. Di più non posso, sennò sconfino in strada. Ma è sufficiente a isolare un esame di maturità». Gli studenti dicono che è illegale. «Usare il telefono in classe è peggio: è dipendenza, come la droga».
È un pioniere della lotta integrata al cellulare, lo "zio Angelo". Al Vitruvio i telefonini molesti vengono requisiti dal 2005. Squillo, ritiro, fascetta col nome, armadietto in segreteria, vengano i genitori a ritirarlo, dopo due giorni. «E mandino pure gli avvocati, so quel che si deve fare». Dev´essere l´unico. La storia della lotta al cellulare nell´arcipelago della scuola italiana potrebbe averla scritta Beckett. La prima circolare la firmò il ministro Berlinguer, quasi dieci anni fa, per i prof. E non successe niente. Il concertino di suonerie è diventato sottofondo delle lezioni. Gli insegnanti sopportano soffrendo. Cinque anni fa la psicologa Mariolina Palumbo accertò che per quattro docenti su dieci lo squillo petulante dei cellulari è il fattore più ansiogeno del mestiere. Nel frattempo la diffusione degli apparecchi è schizzata al 95% tra i 14 e i 16 anni e al 99% tra i 16 e i 18, e il concerto è diventato frastuono.
Ma le contromisure decise non piacciono. I presidi dell´Anp e i genitori del Moige avvisano che «il divieto non è lo strumento più idoneo». Nel suo blog l´onorevole Alba Sasso, firmataria di una proposta di legge, si sente rimproverare il «proibizionismo» e raccomandare «dialogo e condivisione» dagli stessi insegnanti-vittime. Ci si ritrae davanti all´inevitabile scontro. È storia che si ripete in tanti consigli di classe dove i genitori insorgono: il cellulare non si tocca. È proprietà privata. E poi è uno strumento di controllo sui nostri figli. I professori intimoriti arretrano: non abbiamo strumenti. «Gli strumenti si creano», il preside di Avezzano è deciso, «altrimenti crolla la didattica, chi tiene sul banco il telefonino pensa solo al telefonino, non a studiare». E a quel che ci può fare. Gira per la città la voce di un video ripreso al Pollione, con un prof che dorme sulla cattedra. «Certe cose vanno stroncate sul nascere». I genitori aiutano? «I genitori? C´era una studentessa che veniva a scuola seminuda. Convocai la mamma: venne più svestita della figlia. Il coinvolgimento va bene, ma i problemi della scuola si risolvono a scuola». Il «patto sociale di corresponsabilità» caro al ministro Fioroni rischia di essere un´espressione vuota. La scuola si sente sola, esposta all´aggressività di una società che non la sostiene più: e chiede di avere le spalle coperte. Magari anche da una delibera, come a Gela dove è stato il consiglio comunale a votare il divieto di squillo scolastico su tutto il territorio. Certo preferirebbero la legge che invoca il preside del liceo romano Visconti, Rosario Salamone, «altrimenti qualche genitore può denunciarci».
La tentazione, allora, è l´iper-regolamentazione. Al Vitruvio, frontiera avanzata del conflitto, per tutto c´è una norma scritta. Per mandare in gita i figli, i genitori devono firmare un contratto con clausole da «non si esce dalla camera d´albergo» a «la famiglia rifonderà i danni». Assenze? Un sms automatico ai genitori. Ritardi? Chi salta la prima ora perde la giornata. A ricreazione, vietato sconfinare dal corridoio di pertinenza. E guai a chi fuma nei bagni, preside e insegnanti hanno diritto di irruzione. «È una guerra, creda. La scuola italiana è in carenza di disciplina», si congeda Bernardini davanti ai cartelli di divieto.
«Così lo zio Angelo le ha fatto impressione»: ironico, Alfredo aspetta la corriera al baretto, con gli amici. Sono i discoli del Pollione. Gli indisciplinati, pluriammoniti dallo "zio". Fanno un giornalino tra il goliardico e il libertario, Tiesti (dal tì estì di Platone, poi dici che non studiano) che punzecchia il preside a cadenza mensile. «Quello che ha visto è solo un teatrino dell´assurdo. Sbraitano: Disciplina!, poi non succede nulla, neppure vera repressione, perché farebbe scoppiare una protesta che nessuno vuole. La regola è sopravvivere. Abbozzano tutti. Questa mattina nella mia classe hanno girato quattro video, e non è successo niente». Licia: «La prof di disegno monta il caricabatterie sulla cattedra». Giulio: «Il preside si prende sul serio, ma il suo è un ruolo in una recita». Luigi: «Una volta la scuola riproduceva la società. Oggi riproduce solo se stessa». Una scatola vuota, un mondo a parte, una finzione lasciata esistere perché nessuna società può restare senza scuola, anche se non sa che farsene. «Purché non rompa le scatole. I politici, la gente di fuori, si scandalizzano per i video su Internet perché aprono fessure nel muro di indifferenza che circonda la scuola, solo per questo detestano i cellulari». Se non fa scalpore, quel che succede là dentro non interessa neppure alle famiglie. «Quando torniamo a casa i genitori non chiedono "cos´hai studiato oggi", ma "che voto hai preso". Il prodotto della scuola non è conoscenza ma pagelle. Ripeti la lezioncina, nascondi il cellulare, alza un po´ la cintura dei jeans, e te la cavi. Come la naja: aspetti che finisca. La scuola questo insegna: la dissimulazione». Dovrebbe formare la società. «È quello che fa. La società sta diventando come la scuola».

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