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Repubblica: Quelle figure escluse che non hanno più diritti

Gad Lerner

10/06/2008
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la Repubblica

Le lunghe file dei migranti
Chi si è messo per ore in coda agli uffici stranieri della questura e ha incrociato supplichevole lo sguardo di un funzionario esausto non può levarsi più quell´inquietudine di dosso
Cosa significa mettersi nei panni di un clandestino. L´esperienza di un cronista

Nello scompartimento del treno locale Genova - La Spezia entra ondeggiando col cartone di Tavernello in mano un vecchio freak scapigliato, la chitarra a tracolla e il cane bastardo al guinzaglio. «Da quando la moglie mi ha buttato fuori casa, basta libri, solo vino», ironizza brillo e malinconico. È un tedesco di Essen, da anni residente a Chiavari se il divorzio non l´avesse sospinto a vagabondare per la Liguria. Dove trova ricovero la notte?
Di colpo lo sbandato d´aspetto sessantottino si trasforma, furibondo. «Lo sai cosa mi dicono ai centri d´accoglienza? Rivolgiti all´ambasciata di Germania, mi dicono! Lì prendono solo quegli schifosi dei clandestini, sudamericani violenti, arabi parassiti. Con che diritto loro vengono a casa nostra? E invece guarda che roba: se non sei clandestino niente diritti. Ci vorrebbero di nuovo Hitler e Mussolini per fare pulizia».
In un attico confortevole della Milano bene è invece la colf boliviana a compiacersi dei controlli di documenti avviati in questi giorni sui tram e nel metro. Che strano, lei è stata regolarizzata per il rotto della cuffia con l´ultima sanatoria, vive con un fidanzato e una sorella che lavorano ma privi di permesso di soggiorno. Eppure: «I nordafricani mi fanno paura, mi sta bene se la polizia ferma quei clandestini violenti, non sono neanche cristiani, ce ne sono troppi in via Padova sotto casa mia».
La nozione di clandestino è sdrucciolevole, ne trovi sempre uno da collocare al gradino sotto di te nella scala degli aventi diritto. Tanto più in un paese come l´Italia che non conosce ancora tempi certi e procedure trasparenti nell´acquisizione del permesso di soggiorno, figuriamoci della cittadinanza.
Almeno tre o quattro volte sono stato clandestino anch´io nei quasi trent´anni passati da apolide fra il mio arrivo in Italia e la concessione del passaporto tricolore, più volte respinta, e giunta infine solo grazie al matrimonio. Chi ha fatto decine di ore di fila agli uffici stranieri delle questure, per poi magari scoprire che la pratica non avanza in quanto all´anagrafe gli hanno storpiato il nome straniero, e ha incrociato supplichevole lo sguardo di un funzionario esausto, sognandolo corruttibile con regalini da poco quando l´immigrazione non era ancora una baraonda…non si leva più quell´inquietudine di dosso.
La limitazione vissuta nella libertà di movimento, la laboriosità o l´impossibilità dell´espatrio, lasceranno in chi le ha vissute il dubbio di restare comunque un irregolare, per una catena di circostanze non riparabili a seguito delle quali il destino ti ha relegato in serie B. La clandestinità dunque s´introietta, è un segreto esistenziale che affligge prima ancora di essere riconosciuto dai "regolari" che hai di fronte, e si manifesta in un riflesso condizionato: pensarsi sempre privo di diritti.
Prima di diventare italiano consideravo dunque un privilegio, una concessione che l´Ordine dei Giornalisti mi lasciasse pubblicare articoli con un contratto impiegatizio, iscrivendomi a uno speciale "elenco stranieri" cui erano preclusi scatti di carriera e condivisione previdenziale.
Festeggiai l´agognata cittadinanza, nel febbraio del 1986, affrontando con la protezione del passaporto italiano un viaggio lungo tutta la penisola travestito da immigrato senza casa e in cerca di lavori occasionali. L´Espresso ovviamente lo pubblicò col titolo: "Il clandestino. Dalla Sicilia alla Lombardia un nostro redattore si è messo nei panni di uno straniero immigrato. Ha vissuto l´umiliante ricerca del lavoro nero, le notti all´aperto. Ecco il suo diario". Sono passati ventidue anni ma siamo ancora lì, alle prese con il clandestino che nel frattempo s´è generalizzato come incubo minaccioso. Già da un decennio facevo il giornalista ma fu solo alla fine di quel 1986, con apposito esame, che la corporazione mi accolse come professionista in quanto connazionale. E consentì perfino la promozione a inviato.
La nozione di clandestino nel corso di questi ventidue anni ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio stigma. Un marchio consolidato nella relazione quotidiana che sperimentiamo tra il virtuale e il reale. La tv ci mostra con intenti compassionevoli le vite di scarto rinchiuse nei campi profughi delle varie povertà mondiali; poi quegli stessi occhi scuri li troviamo che ci scrutano sui bus o per strada, nelle immediate vicinanze di casa nostra. Il derelitto assume così oggettivamente una pericolosità che prescinde dalle sue buone o cattive intenzioni. Anzi, è proprio mettendoci nei suoi panni che dubitiamo lui possa relazionarsi con noi serenamente visto ciò che irreparabilmente ci divide: non tanto l´identità, l´appartenenza comunitaria, ma la titolarità o meno di un diritto all´inclusione.
Luigi Manconi denuncia giustamente quanto sia grossolana l´equazione immigrato-clandestino-criminale, in seguito alla quale si dimentica che quasi sempre il cittadino straniero irregolare è entrato con visto turistico, o è titolare di un permesso scaduto, e dunque può semmai essere considerato responsabile di un illecito, e lungi dall´essere pericoloso svolge un´attività lavorativa. Ma non dobbiamo stupirci se lo stigma della clandestinità turba così prepotentemente il cittadino italiano, e induce i politici Pdl e Pd a fare a gara in tv su chi sia il più efficiente nel garantire l´"espulsione dei clandestini". Perché il mantenimento di una disparità di diritti fra chi è titolare di cittadinanza e chi rivendica solo per bisogno di vivere sul "nostro" territorio potrà imbarazzare i liberali più coerenti, ma è percepito come necessità vitale di sopravvivenza dai primi. Nel suo bel saggio Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell´universalismo democratico (Donzelli), la docente di Teoria politica Nadia Urbinati è molto abile nel metterci in imbarazzo. Le democrazie liberali spesso si trovano costrette a difendere una nozione vecchia di confini nazionali, contraddicendo i principi liberali che le ispirano, limitando cioè la libertà di movimento come se non rientrasse fra i diritti umani fondamentali fuggire dalla fame e dalla carestia. Ma se vogliono restare democrazie, finora non possono rinunciare a una linea di demarcazione che circoscriva i titolari della cittadinanza politica.
La clandestinità è il portato esistenziale di una disuguaglianza ancor oggi troppo impervia da lenire: per conservare i nostri diritti, abbiamo bisogno di sapere che altri vicini a noi non li detengono. Ce lo dimostrano candidamente pure il barbone tedesco arrabbiato con chi offre un giaciglio ai clandestini e la colf boliviana che vuole più controlli sui nordafricani ma ospita dei connazionali irregolari.
Nadia Urbinati può così descrivere la migrazione transnazionale come un dilemma che dilania al cuore le democrazie occidentali, «facendone il teatro di plateali contraddizioni tra i loro proclamati princìpi egualitari e le loro restrittive politiche di naturalizzazione e perfino di accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo». Temo che tale scrupolo riguardi ormai solo una sparuta pattuglia di accademici liberali. Quando racconto in giro che fatica fosse rinnovare ogni anno il permesso di soggiorno in Italia e tentare di ottenere il visto dei pochi Stati esteri in cui potevo viaggiare, vedo facce incredule. Del resto nessuno considera "clandestino" lo straniero irregolare che bada a sua madre, gli pota la vigna o fa le pulizie nel condominio. Clandestini sono sempre gli altri: buttateli fuori!