Repubblica: Ristudiare l'taliano
Raffaele Simone
Politica culturale
Bossi con le sue sparate si è spinto sul terreno molto difficile della politica culturale. Anzi dell´alta politica. Perché oggi il vero problema è quello del nostro stato di "salute linguistica"
I risultati desolanti della nostra scuola
Quanto ai nostri dialetti, che stanno tanto a cuore alla Lega, la situazione è chiara: i dialetti italiani (come quelli di altri paesi, quali Germania e Spagna) vanno dissolvendosi, cioè disfacendosi nelle forme di italiano che si usano nelle diverse regioni. Il dialetto "stretto" lo usa solo la gente su cui la scuola è passata senza fare né caldo e né freddo: analfabeti o semi-analfabeti, emarginati, incorreggibili somari e isolati di varia natura. Chi non rientra in queste categorie dovrebbe disporre, sapendoli opportunamente alternare, di un dialetto (italianizzato) e di una qualche forma di italiano, anche se oggi la maggior parte della gente parla italiano, sia pure in modo non esaltante. Ciò accade anche nelle regioni (Veneto, Campania, Sicilia, Piemonte, e altre) in cui nei rapporti fra le persone si usa quasi solo il dialetto. Il dialetto da solo è uno stigma di arretratezza, non una risorsa culturale.
Ciò non toglie che i dialetti siano un aspetto centrale della nostra tradizione, anzi! Il fatto è che alla loro dissoluzione non si può opporre nessuno, neanche Bossi con tutta la guardia padana. In parte sono i genitori che non lo insegnano più ai figli, in altri casi sono i figli a non volerne sapere; al resto pensa il mondo globalizzato, che non va tanto per il sottile rispetto alla conservazione dei dialetti e delle piccole lingue in generale. Ma non tutto è perduto: la trasmissione del dialetto è proprio come la religione, cioè una questione privata e familiare. Chi lo vuole insegnare ai figli è padronissimo, ma non può pretendere che a occuparsene siano la scuola o i media. Anche perché la scuola di un paese unitario (fino a prova contraria) deve diffondere una lingua ragionevolmente unitaria. Amen.
Come si vede, senza saperlo Bossi con le sue sparate si è spinto sul difficile terreno della politica culturale. Felix culpa! In questo campo, visto che per i dialetti non c´è nulla da fare, sarebbe semmai utile segnalare un problema più serio, di cui non si trova traccia nell´agenda del governo: qual è la "salute linguistica" degli italiani? Questa domanda non riguarda la scuola, ma interpella direttamente la politica, anzi l´alta politica. Infatti, pochi si rendono conto che ciò che chiamiamo "lingua" è un fascio di know how fra i più complicati: sapere l´italiano significa saper scrivere, leggere, capire ciò che si legge e si ascolta, ragionare su ciò che si sta per scrivere, elaborare argomenti e forme, e così via. È chiaro che il possesso di una così complessa gamma di capacità incide in modo diretto sul futuro dell´intelligenza del paese.
Molti indizi lasciano pensare che in questi campi gli italiani non siano all´altezza dei tempi e, meno ancora, all´altezza degli altri paesi civili. Gli indizi pullulano: la perdurante presenza di analfabeti (almeno un paio di milioni anche se l´Istat ne registra di meno), la scadente qualità della confezione linguistico-culturale dei media (a partire dalla scrittura dei giornali), la scarsa diffusione della lettura, la bassa qualità dell´informazione radio-televisiva, il subdolo diffondersi di quel semi-alfabetismo che trionfa in media sedicenti democratici come il computer e il telefonino. Ma ci sono anche dati tosti, depositati in varie indagini sulle capacità dei nostri pupetti. Nella ricerca Ocse Pisa del 2006 (mai sentita nominare, ministra Gelmini?), ad esempio, gli studenti italiani risultavano drammaticamente sotto la media europea in un´abilità cruciale come la comprensione della lettura (uno dei difficili know how che formano "la lingua").
Simili dati fanno capire con chiarezza che quel che è urgente non è imporre i dialetti per decreto ma ricominciare daccapo con la formazione linguistica di base degli italiani.