Leggo sulla home page della Università di Bari, dove si sono svolte le votazioni per eleggere il Rettore, che è stato riconfermato per il prossimo triennio, con 1365 suffragi su 1637, il prof. Corrado Petrocelli, candidato unico, già in carica nel mandato precedente.
L´annuncio evidenzia con compiacimento che in questa tornata, per la prima volta, oltre ai docenti e ai ricercatori, ha votato tutto il personale tecnico e amministrativo, oltre ai collaboratori ed esperti linguistici e ai dirigenti. Non si parla degli studenti che, peraltro, hanno sicuramente una rappresentanza. La significativa novità risiede, comunque, nella modifica, introdotta per Statuto, che amplia l´elettorato attivo di massa a tutto il personale non docente e non alle sole delegazioni rappresentative del medesimo. Anche se per ora restano voti «pesati» e non «contati» per testa, appare evidente il valore politico e simbolico dell´intervento diretto di un corpo elettorale che conta oltre 1700 dipendenti tecnico-amministrativi a fronte di 1900 docenti, con un rapporto quasi di 1 a 1. Una condizione che ha già spinto uno dei sindacati autonomi, che in questi settori finiscono in genere per incidere più di quelli confederali, a rivendicare un voto pieno e non ponderato per tutti i dipendenti.
«Questa è la democrazia, bellezza!» esclamerà soddisfatto più d´uno. Ed è indubbio che si può intendere questa pratica, certamente in via di applicazione anche in altri atenei, come una prova di rafforzamento di una democrazia rappresentativa in un ambito prima dominato dalle gerarchie accademiche. Ma è proprio così o si tratta di un dilagare del populismo imperante, destinato ad infliggere altri colpi di maglio ai già dissestati atenei italiani? Chiedo lumi a chi segue più da vicino del sottoscritto le vicende universitarie. Una risposta che si distingue per equilibrio mi vien data dal professor Mario Sechi, ordinario di Letteratura italiana contemporanea, molto noto per gli studi su Svevo: «La governance dell´Ateneo di Bari e di molti altri, tende a poggiare ormai su un consenso espresso da tutte le categorie del personale, sindacalmente rappresentate e identificate. Di conseguenza il rettore è portato a ritagliarsi un ruolo di governatore o capo politico sui generis di una istituzione-azienda, strutturata in regime di permanente cogestione e, sempre meno primo inter pares di una comunità scientifica di studio e ricerca. Di questo passo potrebbe avvenire che i programmi di ricerca, l´individuazione dei punti di eccellenza da raggiungere, i piani di studio finiscano per essere soggetti al gradimento delle sottocategorie interne, dei sindacati, della Regione. Sarebbe l´esito naturale di comunità accademiche trasformate in una sorta di macro apparati burocratico-aziendali, volti alla propria autotutela su basi corporative e consociative».
Una radiografia oggettiva che spiega, anche, il moltiplicarsi degli scandali universitari, i concorsi truccati, i test trasmessi sottobanco, le cattedre parentali e quant´altro. Come anche la proliferazione dei corsi di laurea e delle discipline di insegnamento, utili alla moltiplicazione delle cattedre, con tecniche di stimolazione e manipolazione della domanda, assolutamente mercantili, correlata alla svalutazione dei saperi fondamentali e formativi. In questo contesto non è paradossale che l´aziendalizzazione mercantile della organizzazione universitaria, invece di generare efficienza abbia prodotto gravissimi squilibri finanziari, con apparati crescenti e minore ricerca. Si può dire che dall´autonomia si sia passati all´auto referenzialità. Da questo punto di vista appare in contro tendenza la proposta di Maria Stella Gelmini di togliere la gestione dei concorsi per i docenti alle singole università per ripristinare il concorso unico nazionale. I mugugni che piovono da ogni parte fanno pensare che sia nel giusto.
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