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Repubblica-Si è aperta la porta dell'inferno -di E.Scalfari

Si è aperta la porta dell'inferno EUGENIO SCALFARI Descrivere e addirittura commentare, cioè azzardare un giudizio su ciò che sta accadendo nel mondo, è diventato quasi impossibile poiché ...

16/11/2003
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la Repubblica

Si è aperta la porta dell'inferno
EUGENIO SCALFARI
Descrivere e addirittura commentare, cioè azzardare un giudizio su ciò che sta accadendo nel mondo, è diventato quasi impossibile poiché il mondo sembra essere uscito dai suoi cardini, il sangue si aggiunge al sangue, le bombe seguono e precedono altre bombe, i morti altri morti in una catena ferale dominata dall'odio, dalla ferinità, dall'attrazione della strage. La Bestia dell'Apocalisse si è scatenata, i tempestosi venti di Eolo sono usciti dal loro ricettacolo, il vaso di Pandora è stato scoperchiato spargendo dovunque i suoi veleni.
Ieri, mentre le bare dei soldati italiani caduti a Nassiriya tornavano in patria avvolte nella bandiera nazionale e accolte dal cordoglio commosso di un'intera nazione, il tritolo mieteva nuove vittime nelle sinagoghe di Istanbul: ancora sangue, monconi di corpi, urla e disperazione, sirene di ambulanze. Terrore e sgomento ovunque, senza un riparo in cui ci si senta sicuri, un tetto che ci protegga, un punto di riferimento morale che valga a rincuorarci.
E una folla di domande che restano inevase, senza risposte plausibili e si condensano in un solo angoscioso punto interrogativo: come uscire da questo inferno e riveder le stelle? C'è un senso in tutto questo? Una Provvidenza, un lume di ragione, una traccia di umanità, un briciolo di saggezza? A questo siamo ridotti, anche la speme lascia i sepolcri...
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I terrorismi si saldano l'uno con l'altro, la guerra si trasforma in guerriglia, i potenti di ieri diventano gli impotenti di oggi e la pace, la tolleranza, l'amicizia dei popoli sfumano in un miraggio evanescente e lontano.
L'uomo più potente del mondo ripete meccanicamente parole vuote, smentite ora per ora dalla realtà. Ieri ha detto: "La situazione in Iraq è decisamente migliorata, perciò aumentano gli attacchi contro di noi". Oggi dice: "La soluzione è quella di restituire al più presto l'Iraq agli iracheni". Ieri diceva: "L'America andrà avanti da sola". Oggi dice: "Il multilateralismo è la strada giusta da seguire". Ieri ha detto: "Ce ne andremo soltanto a lavoro finito". Oggi dice: "A primavera i nostri ragazzi saranno tornati tutti a casa".

A mettere insieme gli slogan e i responsi diffusi negli ultimi sei mesi dalla Casa Bianca e dal Pentagono si direbbe che gli inquilini di quei luoghi stiano attraversando una fase di quotidiana follia. Adesso cercano un Karzai iracheno che rimetta in piedi l'esercito, la polizia e la pubblica amministrazione di Saddam Hussein col personale di Saddam per consentire alla Grande Armata di alzare i tacchi senza perdere la faccia. E tutta l'Europa disobbediente, Chirac in testa, plaude a quest'ipotesi che dovrebbe culminare con il pieno rientro in campo delle Nazioni Unite.
Un bel sogno che purtroppo non ha nessuna attinenza con la realtà, qualunque sia in proposito l'opinione di Diliberto e di Pecoraro Scanio.
Ammesso che si trovi un Karzai iracheno (e perfino questo modesto obiettivo non sembra affatto a portata di mano) si dimentica di dire che Karzai è tutt'al più una sorta di sindaco di Kabul, il suo potere effettivo puntellato da alcune migliaia di soldati dell'Onu non va al di là dei quartieri centrali della capitale oltre i quali comincia una terra di nessuno dove si affrontano i signori della guerra, i banditi, i tagliagole, mentre le milizie talibane dominano tuttora le montagne di Tora Bora e tengono solidamente il confine con il Pakistan.
Un Karzai a Bagdad sarebbe la soluzione per uscire dalla trappola irachena? Questa doveva essere l'operazione di "domino" che avrebbe instaurato la democrazia sulle ceneri della dittatura sanguinaria del raìs riverberando i suoi effetti virtuosi sulla Siria, sull'Iran, sullo Yemen, dando respiro alla dinastia saudita e all'Egitto di Mubarak e riaprendo la via al piano di pace tra Israele e Palestina?
Fandonie prima ancora che illusioni. Non ci consoli constatare che quest'esito catastrofico era stato previsto e inutilmente suggerito dal Papa, dai paesi della vecchia Europa e da chi la pensava come loro: Bush e Tony Blair in quella trappola ci sono caduti perché hanno voluto caderci, ma ormai dentro ci siamo tutti, irrevocabilmente. Uscirne tutti insieme senza provocare altre catastrofiche conseguenze sarà, questo sì, come far passare un cammello per la cruna d'un ago.

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Una parola sui fatti di casa nostra, "si parva licet".
Siamo andati in Iraq con 2.700 soldati di tutte le armi: fanti, carabinieri, aviatori, marinai. Ci siamo andati sei mesi fa quando la guerra pareva finita (Bush l'aveva proclamato in tuta mimetica dalla tolda d'una portaerei) ed era opportuno essere sul posto per guadagnarci l'amicizia di George W.
La spedizione fu definita come un "intervento non belligerante" di carattere esclusivamente umanitario: ospedali, personale medico e paramedico, specialisti di sminamento, tecnici per riattare centrali e reti elettriche e telefoniche. I soldati sarebbero andati al seguito delle strutture mediche per garantirne la sicurezza. Con queste motivazioni il Parlamento votò.
In realtà non era vero niente e lo si capì subito quando si seppe che l'ospedale italiano sarebbe stato impiantato a Bagdad mentre la truppa sarebbe stata dislocata a Nassiriya nell'area di Bassora e sotto comando inglese. Come contentino a noi diedero in sotto comando un contingente di 100 rumeni.
Forse è molto irriverente, ma la nostra presenza in Iraq, decisa senza alcuna copertura internazionale (né Onu né Nato né Unione Europea) e motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione, a me ricorda sinistramente l'intervento italiano del giugno 1940, dopo nove mesi di non belligeranza, con la Francia in ginocchio e l'Inghilterra assediata nella sua isola, "per esser presenti con una manciata di morti al tavolo della pace".
Sento dire che i poveri morti di Nassiriya hanno aumentato il nostro prestigio internazionale. Forse è vero, non so giudicare in materie così soggettive, ma credo che d'un prestigio ottenuto a quel prezzo la maggioranza degli italiani avrebbe fatto volentieri a meno.
Quei morti ci sono cari, il loro senso del dovere ci è di sprone, e così pure la fiera umiltà con la quale i feriti hanno tagliato corto alla retorica dicendo con le lacrime agli occhi per i loro compagni scomparsi: "Noi non siamo eroi ma semplici soldati che hanno svolto il lavoro assegnato". Un giornalista a Nassiriya, tra le macerie dell'esplosione, ha chiesto ad un ufficiale dei carabinieri: "Fino a quando rimarrete qui?", l'ufficiale ha risposto: "Fino a quando ci diranno che il nostro lavoro è compiuto". Il motto dell'Arma dice "usi a obbedir tacendo". Andrebbe messa un'altra medaglia d'oro alla bandiera dei carabinieri, non perché sono eroi ma perché hanno tenuto fede a quel motto che costituisce l'essenza di un regime democratico.

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Il terrorismo spietato cui si deve far fronte non è ovunque lo stesso. C'è quello fondamentalista di Bin Laden che si prefigge uno scontro di civiltà; quello sunnita che combatte per difendere le sue posizioni tribali e quello sciita che gli si oppone; quello palestinese che vuole la nascita e l'indipendenza del suo Stato e tanti altri ancora in Indonesia, nelle Filippine, in Cecenia, nel Kashmir. Motivazioni diverse alle quali l'antiamericanismo e l'antiebraismo offrono un cemento comune e la falange di kamikaze offre un micidiale strumento di distruzione.
È diventato un luogo comune definirlo vile, ma l'aggettivo non è appropriato. Chi sacrifica deliberatamente la propria vita per distruggere vite altrui si può definire spietato, diabolico, cieco, disumano, ma non vile.
Vile è chi scappa, non chi si immola al proprio fanatismo. La comparsa in massa dei kamikaze sulla scena del mondo segna la discesa all'inferno della nostra specie e rischia di modificare nel peggio anche le forze che gli si oppongono. Rischia di deformare la democrazia in autoritarismo, di soffocare lo Stato di diritto, di mettere a tacere chiunque si opponga alla dissennatezza, di far prevalere la ragione del forte ignorando la voce dei deboli.
Rischia infine di condurci a quello scontro di civiltà che è l'obiettivo principale del terrorismo più pericoloso di tutti, contro il quale si formò dopo l'11 settembre la più grande coalizione mai vista al mondo.
Bisognava affrontarlo sul suo terreno che era quello della polizia internazionale. Ma c'era bisogno di vittorie, vittorie militari spendibili per estendere e rafforzare il consenso. Perciò la guerra contro gli Stati, perciò l'Iraq, perciò le minacce alla Siria, all'Iran e agli altri Stati "canaglia".
Bush senior, il padre di George W. arrestò le sue truppe guidate da Colin Powell sulla strada di Bagdad. Temeva che la caduta di Saddam avrebbe provocato il caos tra il Tigri e l'Eufrate e dissolto uno Stato finto, contenitore di etnie e tribù pronte a sbranarsi l'un l'altra appiccando il fuoco in tutta la regione. È esattamente ciò che sta accadendo. Pare che Bush padre sia ora sinceramente arrabbiato con Bush figlio, ma è troppo tardi ormai.
La sola via d'uscita non è, oggi, ritirare le truppe e irachizzare la crisi, ma distinguere un terrorismo dall'altro, distinguere le loro particolari motivazioni, dare spazio a quelle accettabili nei limiti della loro accettabilità, non presumere di portare la nostra democrazia laddove non esiste il terreno sociale e antropologico perché attecchisca, favorire lo sviluppo economico di quelle regioni ricchissime e miserabili.
Non ci sono guerre da vincere, ci sono invece guerriglie che possono mettere al tappeto eserciti invincibili.
Il ruolo dell'Onu non è quello di mandare al macello un ipotetico esercito di caschi blu ma di assumere la direzione politica della crisi e guidare la strategia antiterroristica con criteri del tutto diversi da quelli della Casa Bianca e del Pentagono.
Questa è la svolta da proporre, anzi da reclamare. Altrimenti i morti seppelliranno i morti e l'inferno sarà sempre più vicino alle nostre case.