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Repubblica-Un ponte nel vuoto

Un ponte nel vuoto MASSIMO GIANNINI CON il ventiduesimo voto di fiducia, Berlusconi impone all'assemblea di Montecitorio la nuova legge sulle pensioni. In soli 3 anni, la Casa delle Libert?...

29/07/2004
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la Repubblica

Un ponte nel vuoto
MASSIMO GIANNINI
CON il ventiduesimo voto di fiducia, Berlusconi impone all'assemblea di Montecitorio la nuova legge sulle pensioni. In soli 3 anni, la Casa delle Libertà brucia il record che l'Ulivo aveva accumulato in 5 anni: 22 a 20. Sette voti di fiducia all'anno. E non certo per far approvare riforme radicali ma per far transitare senza danni provvedimenti nati per tirare a campare. E ingiunti al potere legislativo non tanto per sanzionare i modesti diritti dell'opposizione, quanto per blindare i fragili doveri della maggioranza. Ha mille ragioni il presidente della Camera Casini, a lamentare l'ennesimo danno inflitto al Parlamento. Ma non è neanche questa, in fondo, la vera "cifra" politica e finanziaria di questo forzoso via libera al nuovo regime previdenziale.
Questa presunta "riforma" è solo un ponte. Serve al centrodestra per sopravvivere all'estate, attraversando l'abisso di una crisi che sembrava potersi aprire addirittura prima delle ferie d'agosto.
La riforma delle pensioni è invece un ponte sospeso nel vuoto della politica. La Casa delle Libertà, fondata sulla forza originaria e cogente del suo leader, è ormai poco più che una somma di debolezze. Dal suo letto di convalescente, Bossi aveva azzardato l'ultima minaccia: se dagli alleati non arriva il disco verde alla devolution, dalla Lega non arriva nemmeno il disco verde sulla previdenza. Ma anche tra le camicie verdi, esattamente come accade in An e nell'Udc, c'è un'"ala ministeriale" (Maroni e Calderoli) che mal sopporta i richiami della foresta del proto-leghismo padano. Per questo, alla fine, il Cavaliere è riuscito a persuadere Bossi a votare la fiducia. In cambio, gli ha concesso l'impegno a incardinare in aula alla Camera, entro la prossima settimana, almeno l'avvio del dibattito sul federalismo. Per il voto, tutto è rinviato a settembre.
Lo stesso orizzonte differito ha prevalso nell'Udc. Follini ha tirato la corda fino al punto estremo. Non voleva e non poteva rompere adesso. Rispetto ai rivali nella sua coalizione, benché le abbia provvisoriamente ripiegate in commissione, congelando i dieci emendamenti al pacchetto riforme istituzionali, non ha affatto ammainato le sue "bandiere". Con la ragionevole certezza di dover contrastare un riassetto costituzionale che se anche passasse all'esame del Parlamento non passerebbe mai al vaglio popolare di un referendum confermativo, è pronto a farle sventolare in aula dopo la pausa estiva. Rispetto ai dissenzienti nel suo partito, non ha rinunciato alla "conta" nel consiglio nazionale di lunedì. Con l'appoggio di Casini che non gli è mai mancato in questi mesi e non gli mancherà in futuro, punta ad uscire da quel test con un chiarimento definitivo, sulla leadership e sulla linea politica. Gli servirà per affrontare lo scontro frontale sul federalismo e sul premierato. Di nuovo, tutto è rinviato a settembre.
Fini lascia fare. Lucrata un mese fa la più alta rendita politica e personale, non è riuscito o non ha saputo fare alcun "uso" della cacciata di Tremonti. Forse, viste le cifre del disastro della finanza pubblica che il nuovo ministro del Tesoro ha avuto il merito di portare allo scoperto, si capisce anche il perché. Ma il vicepremier paga comunque la mancata assunzione di responsabilità diretta con un inevitabile appannamento della sua leadership. Che torna gregaria, e appiattita su quella non meno appannata di Berlusconi. Se il premier resiste, resiste anche il suo vice. Se precipita, il vice si deve ricollocare. Anche per Fini tutto è rinviato a settembre.
La riforma delle pensioni è anche e soprattutto un ponte sospeso nel vuoto dell'economia. È comprensibile il consenso diffuso che sta riscuotendo il "metodo Siniscalco". Ruota intorno a due perni: trasparenza assoluta con il ceto politico e l'opinione pubblica sui saldi contabili tendenziali, confronto tenace con i sindacati e gli imprenditori sulle misure correttive. Ma il metodo non risolve il merito. E il merito dice prima di tutto che questa nuova legge sulla previdenza non elimina la gobba della spesa, non cancella le iniquità intergenerazionali, e produce effetti pratici solo a partire dal 2008. E in secondo luogo, che l'Italia soffre un pauroso deterioramento dei conti pubblici, e gli italiani si devono preparare a un autunno di feroci stangate, come non se ne vedevano dal remoto ?92. Il Dpef, di cui il Consiglio dei ministri dovrebbe varare oggi le linee di fondo, contiene impegni insieme realistici e proibitivi. È realistico prevedere un abbattimento del rapporto deficit/Pil dal 4,4% tendenziale al 2,7% l'anno prossimo. Ma è proibitivo raggiungerlo accompagnando una manovra secca da 24 miliardi con una riforma fiscale che, secondo Luigi Spaventa, "costa" non meno d'un punto e mezzo di Pil. È realistico rimettersi su un sentiero virtuoso d'abbattimento del rapporto debito/Pil, dall'attuale 106% al 100% nel 2008. Ma è proibitivo raggiungerlo immaginando privatizzazioni per 25 miliardi d'euro all'anno, a meno che lo Stato italiano non voglia cedere la totalità delle quote Enel ed Eni in suo possesso.
"L'Italia che ho in mente", come la chiamava il Cavaliere nel 2001, non c'è più. Il sogno azzurro s'è trasformato in incubo. Come in un odioso flashback, torna la povera, mesta Italietta di fine anni ?80, quella che patisce le solite lacrime e il solito sangue. Arriva lo scippetto preagostano sulle seconde case, che prelude a future batoste anche sulle prime. Si risente parlare di ticket sanitari a 4 euro a confezione. Si vocifera d'imposte patrimoniali sulle rendite finanziarie. S'ipotizzano nuovi interventi sulle quattro finestre delle pensioni d'anzianità, senza aspettare lo "scalone" del 2008. Il fantasioso ministro Lunardi si spinge a profilare il pagamento d'un pedaggio automobilistico sui 4.500 chilometri di strade statali.
È quasi normale, in un quadro emergenziale da Prima Repubblica, che l'euroscettico Berlusconi adesso abbia in testa una sola via d'uscita: sciogliere i vincoli del Patto di stabilità. "Un cappio al collo di cui dobbiamo liberarci", come ha detto ai gruppi parlamentari forzisti, puntando sulla disponibilità di Francia e Germania, "che stanno esattamente come noi".
È l'ultima, clamorosa fandonia del Cavaliere: vuole calare il jolly preelettorale coprendo sgravi e crescita in regime di deficit spending, sfondando la soglia del 3% insieme a Chirac e Schroeder, ma dimenticando che questi signori hanno un debito pubblico che è meno della metà del nostro. Ma è anche l'ultima, disperata illusione del Cavaliere: se anche Parigi e Berlino gli accordassero la deroga, l'Italia otterrebbe un salvacondotto dalla nomenklature d'Europa, ma non dai mercati internazionali. L'indulgenza burocratica non basterebbe a evitare la condanna finanziaria. Il down-grading del nostro debito sarebbe inevitabile. Il rischio Italia sarebbe insostenibile, o accettabile solo al "prezzo" d'un fortissimo aumento degli interessi sui nostri titoli. Torneremmo all'antica, terribile spirale del "debito che s'autoalimenta". A Berlusconi importa poco. Si prepara per settembre: la devolution, la Finanziaria, la crisi, forse le elezioni anticipate. Se le vince, ci alluviona di nuove promesse. Se le perde, sono affari di chi viene dopo. Lui una soluzione l'ha già trovata: "Se perdiamo - ha detto due sere fa agli azzurri - scappiamo in Russia: tanto lì ci sono meno comunisti che in Italia...". L'ultimo, bugiardo esorcismo, per trasformare una tragedia in farsa.