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Repubblica-Una Costituzione a misura di premier

Una Costituzione a misura di premier FRANCO CORDERO Che non siano tempi da riforma delle norme fondamentali, l'avverte chiunque abbia la testa sul collo e sensibilità all'interesse c...

26/09/2004
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la Repubblica

Una Costituzione a misura di premier

FRANCO CORDERO

Che non siano tempi da riforma delle norme fondamentali, l'avverte chiunque abbia la testa sul collo e sensibilità all'interesse collettivo. Gl'istituti patiscono il tempo. Invecchia anche la Carta 27 dicembre 1947, entrata in vigore dal Capodanno seguente, ma resiste bene, talmente bene che qualcuno vuol seppellirla: inutile dire chi siano i becchini, campioni d'un regime personale nel segno dell'antipolitica demagogica, e vi stanno riuscendo in forma subdola. L'art. 138 Cost. regola le revisioni costituzionali: ogni Camera delibera due volte con un intervallo d'almeno 3 mesi; nella seconda è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti; le nuove norme vanno a referendum se lo chiedono un quinto degli appartenenti a una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali, a meno che le avessero votate i due terzi. Era avvenuto sette volte, interventi particolari (il più importante nell'art 111, giusto processo: l. c. 23 novembre 1999 n. 2). Il ddl governativo n. 4862, sul quale lavora Montecitorio, è un capolavoro d'ingegneria chirurgica davanti al quale impallidiscono le opere macabre del dottor Frankenstein.
Vediamo le novità nel punto capitale, il potere esecutivo, cominciando dai nomi: Cavour, Minghetti, Depretis, Giolitti, erano "presidenti del consiglio"; Mussolini diventa "capo del governo"; B. vuol essere "primo ministro". Non è pura questione verbale. Nel suo mondo visionario l'optimum sarebbe l'investitura dal basso, mediante stupro mediatico: forte della quale, ossia "unto" dal popolo sovrano, non risponderebbe più a nessuno, planando sulla legge; ma siccome abitudini consolidate da qualche secolo impediscono le regressioni all'orda, solerti operai escogitano degli equivalenti. Sinora conferiva gl'incarichi il Capo dello Stato, tenendo conto dei dati elettorali: la vita del governo dipendeva dal voto delle Camere; due e tali restano ma, a questi fini, contano solo i deputati. Nel futuro sistema (fingiamolo instaurato) le candidature alla guida del governo emergono dai comizi: i partiti le presentano; e l'art. 92 esige meccanismi elettorali che favoriscano l'avvento "d'una maggioranza, collegata al candidato". La formula ipocritamente oscura maschera un trucco: la maggioranza relativa diventa assoluta nella divisione dei seggi; purché superi date soglie (supponiamo 20%) "l'unto" incassa un plus diventando padrone dell'assemblea. Il Capo dello Stato funge da notaio, oltre a tagliare nastri, tenere sermoni, consolare i sofferenti et similia: nomina primo ministro chi ha riscosso più voti tra i candidati; e il verbo toglie ogni dubbio sull'automatismo; "nomina" ossia "deve nominare"; non gli compete alcuna discrezione; se non lo nominasse, sarebbe abuso rimediabile attraverso la macchina dei conflitti.
Non basta la nomina garantita: bisogna tenere sotto mano gli onorevoli contro il rischio d'umori inquieti. L'antidoto infallibile è sciogliere la Camera: prospettiva calamitosa rispetto agl'inquilini; nessuno vuol rigiocarsi il posto. Dal 4 marzo 1848, quando Carlo Alberto concede malvolentieri lo Statuto, tale decreto è atto sovrano: Sua Maestà, poi il presidente della Repubblica, mandano a casa gli eletti se lo ritengono necessario, non essendo altrimenti superabile la congiuntura; niente e nessuno li obbligano; ogni tanto rispondono picche; persino Vittorio Emanuele III punta i piedi nel tardo 1924, verso l'acme della crisi Matteotti. Dieci anni fa B. cade male, dopo sei mesi, affondato da "quel Giuda" d'un capopolo leghista: s'è dimesso sotto tre mozioni di sfiducia; e salito a Monte Cavallo, chiede nuove elezioni, sicuro dell'esito, avendo l'ordigno dell'ipnosi televisiva. Ma l'allora Capo dello Stato gli spiega come stiano le cose in sintassi costituzionale (impresa ardua: ha un interlocutore la cui logica da squalo rifiuta i termini medi): siamo una Repubblica parlamentare; l'incaricato governa grazie alla fiducia delle Camere; gliel'hanno negata; scioglierle è l'estremo rimedio; vediamo prima se affiorano nuovi schieramenti; e nasce un governo Dini, vissuto 12 mesi, mentre lo spodestato strepita in nome del popolo sovrano. L'art. 92, nuovo testo, gli assicura pieno dominio: a parte la mostruosa fortuna economica accumulata parassitariamente, la sua forza sta nel polipo mediatico o chiamiamolo imbonimento; con due o tre slogan elementari (ad esempio, "sono l'unico che voglia ridurre le tasse") miete voti a valanga; e da Palazzo Chigi convoca quanti comizi elettorali vuole, magari uno ogni stagione (succedeva nella morente Repubblica tedesca anni Trenta). Questo potere, insindacabilmente esercitabile, gli garantisce uomini del sì, tagliati su misura, pronti a votare qualunque nefandezza. Il governo diventa affare autocratico. Dieci anni fa voleva agli Interni o alla Giustizia uno stretto sodale sul quale pendono gravi accuse penali, ma il Colle aveva da obiettare ed è il presidente della Repubblica che nomina i ministri. Quel signore s'è accontentato della Difesa. Nell'Italia retta dalla Carta berlusconiana non capiterà più. Art. 95: "i ministri sono nominati e revocati dal primo ministro", suoi commessi, famigli, inservienti; li sceglie, installa, permuta, congeda. De facto avveniva nel ventennio nero: Mussolini officia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943; la ronda dei figuranti ne conta centinaia, ognuno nominato da Sua Maestà. Vittorio Emanuele III nomina chiunque gli sia proposto (persino Giovanni Marinelli, coinvolto nell'assassinio Matteotti, sottosegretario alle Comunicazioni dal 5 novembre 1939), ma è meglio che il sovrano non s'immischi. L'art. 95 taglia corto.
Non parliamone, dicono i soliti equanimi, signorilmente annoiati: ormai l'impero mediatico è una pistola scarica in mano a B.; gl'italiani l'hanno visto al lavoro, povero diavolo; tolte gags da avanspettacolo e qualche legge pro domo sua, cos'ha combinato? Niente. Toccati nel portafoglio, rinsaviscono. Insomma, navighiamo nell'epoca postberlusconiana e non essendo più tempi da scelte manichee, niente vieta intese trasversali a proposito d'ammodernamento delle regole. In tale virtuoso ordine d'idee il centrosinistra accorda al governo l'astensione (qualcuno era incline al sì) sulle premesse d'uno smembramento dello Stato. Dio oscura la testa ai mortali "quos perdere vult". Quante furbizie suicide avevamo visto nella commedia bicamerale, né stupisce rivederle, identiche restando le persone, inaffondabili, gerontocraticamente: magari stanno ancora sui cinquanta ma sono vecchi militanti; nascevano nella pipinière del partito-chiesa. Suona da moneta falsa l'ottimismo elettorale. L'uomo resta pericoloso: a definirlo tale bastavano i quarantamila miliardi in vecchie lire d'una fortuna che cresce a vista d'occhio, trionfalmente; l'abbiamo letto pochi giorni fa; comanda i circuiti della fiera mediatica adoperandoli senza scrupoli; nella guerra da corsa nessuno gli tiene testa; ha dei punti deboli, così grossolano e narciso, ma diversamente dagli antagonisti, impara qualcosa; adesso, ad esempio, sta insolitamente quieto. Infine dispone d'una gran risorsa negli avversari volatili, remissivi, ciarlieri senza idee, rissosi. Se non esistessero, se li inventerebbe.