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Repubblica-Una scrittura che ha perduto gioia e rabbia

Una scrittura che ha perduto gioia e rabbia MARCO LODOLI Quando si ragiona sul mondo dei gi...

17/06/2004
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la Repubblica

Una scrittura che ha perduto gioia e rabbia
MARCO LODOLI


Quando si ragiona sul mondo dei giovani bisogna sempre stare attenti a non tirare giù con l'accetta giudizi troppo netti: solo negli ultimi anni ho avuto alunni punk imbullonatissimi, candide evangeliste che non potevano ascoltare neanche la radio, ultras nazisti pronti a sfasciare il mondo, testimoni di Geova, coatti imbufaliti, volenterosi frequentatori di biblioteche, ragazzi sonnambuli o sveglissimi, tutto e il contrario di tutto. Rinchiudere questa molteplicità frastagliatissima nella scatola quadrata di una sola spiegazione sarebbe un'ingiustizia. Una cosa però è certa: quasi tutti gli studenti che ho conosciuto hanno difficoltà enormi a scrivere in italiano. Quasi mai il tumulto di pensieri, sentimenti, fastidi, incertezze che li traversa riesce a tradursi in parole semplici e chiare.
Fino a cinque minuti prima di prendere la penna in mano per cominciare a scrivere li vedo discutere tra loro animatamente, raccontare e commentare, ridere e scherzare, litigare: sembra che dentro abbiano un vulcano di parole pronte a versarsi sul foglio bianco. E invece subito cala il silenzio: penne mordicchiate per ore, vocabolari sfogliati avanti e indietro alla ricerca della parola con cui iniziare, scarabocchi e pupazzetti sui bordi del nulla. È come se fossero chiamati a esprimersi in una lingua straniera, senza colori, lontana, minacciosa: la lingua degli adulti tristi. E così, superando a fatica quel mutismo iniziale, iniziano a scimmiottare i ragionamenti ascoltati distrattamente a tavola o alla televisione. Le parole si incastrano una nell'altra come i bianchi, i neri e i grigi di un quadro astratto. Le frasi sono legna bagnata da cui esce solo un fumo che copre ogni franchezza. Ogni volta attribuiscono la colpa alla traccia del tema, che non va mai bene, neanche quando li invita a parlare di loro stessi, della loro vita, dei loro gusti e disgusti. Ogni slancio si blocca in una prudenza asfittica, ogni fuoco si spegne in una cenere fredda. E così alla fine i temi si somigliano tutti, quelle infinite differenze che prima elencavo si appiattiscono in una lingua amorfa, scombinata perché vuole essere razionale, esangue perché non rischia nulla.
Il compito più difficile di un insegnante è convincere un ragazzo a esprimersi interamente, con gioia o con rabbia, raccontando ciò che davvero sa, ciò che ha visto, che ha pensato. Tutta la freschezza e la libertà della nostra lingua si rattrappisce in un crampo e non comunica più niente, finge di ragionare e zoppica a vuoto. Io ormai credo di aver capito dov'è l'intoppo. L'italiano ufficiale, compreso quello della scuola, è diventato come il latino di Azzeccagarbugli, che simula una serietà solo per nascondere il deserto. I ragazzi provano malamente a imitarlo perché lo temono. La nostra non è più la lingua vivace dei poeti, dei mercati, dei cantastorie e delle pettegole, ma quella degli astratti e smisurati commenti che soffocano il testo, dei politici che ripetono le loro frasi fatte, dei verbali logorroici che coprono la naturalezza dei fatti. Il nostro paese sta invecchiando anche nella lingua, sempre più arida e imbrogliona. Così, quando sono costretti a scrivere due paginette, gli studenti sentono di dover mentire: per entrare nel mondo che hanno davanti scrivono senza onestà e iniziano a tradire la loro vita.