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Riformista: C'è sempre tempo per dar vita a un'università meritocratica

di Gustavo Piga

03/11/2006
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Il Riformista

REPLICA A FIGÀ TALAMANCA

Caro direttore, ho apprezzato il tono costruttivo dei commenti del professor Figà Talamanca sullo stato dell'università italiana. Apprezzo anche il suo - benché rapido - accordo nel ritenere auspicabile (e doveroso?) un contenimento delle spese negli atenei italiani. Ma non è argomento da trattare en passant bensì su cui battere e ribattere, specialmente con la conferenza dei rettori che sembra credere che non è possibile effettuare ulteriori massicce dosi di razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi contenendo i costi. I soldi risparmiati, non pochi, possono ben essere indirizzati a stimolare la ricerca.
Ma il disaccordo col professor Figà Talamanca permane per quanto riguarda la nuova governance da dare all'università italiana. Ricordo la mia proposta brevemente per il lettore: «Un sistema in cui il 30% (e non l'uno per cento come oggi) dei fondi totali all'università siano ripartiti ai singoli dipartimenti solo ed esclusivamente in funzione della qualità della ricerca, valutata oggettivamente. È un sistema fattibile, visto che è da anni portato avanti con successo nel Regno Unito in un'ottica a predominante carattere pubblico. Ciò permetterà di abolire i concorsi e lascerà libere le università di assumere chi vogliono, differenziando i salari tra docenti come vogliono facendosi concorrenza e pagando in proprio le conseguenze di scelte malsane. Queste università diverranno famose nel mondo per la qualità della loro ricerca e per i suoi dottorati di ricerca di altissima reputazione. Alle rimanenti università senza fondi non resteranno che due alternative: chiudere (in fondo non ci si lamenta tutti del proliferare di atenei inutili?) o trovare i fondi sul territorio tramite fondazioni, banche e contributi privati se questi riterranno utile farlo. Pagheranno salari più bassi di quelle di ricerca che avranno budget certamente più ampi, ma riusciranno certamente ad attrarre buoni o ottimi insegnanti e competeranno tra di loro sulla base della qualità dell'insegnamento non tanto a livello di dottorato ma di lauree. Si verrà a creare un sistema dove accanto a grandi università di ricerca convivono ottime piccole università specializzate in buona didattica».
Il professore Figà Talamanca ci ricorda che le origini delle università inglesi in università di ricerca e università di insegnamento già esisteva dagli anni Sessanta. Bene, non vedo la rilevanza di ciò. Quello che conta è l'esito della riforma inglese avviata nel 1986 per far fronte alla improduttività del sistema britannico allora molto simile al nostro odierno quanto a risultati. Al contrario di quel che sostiene il professor Figà Talamanca, la valutazione della ricerca e il trasferimento di fondi sulla base del merito ha sconvolto in un decennio il sistema universitario inglese rispetto a quello prevalente prima. In esso, ora, le università si strappano le migliori menti scientifiche con offerte contrattuali competitive che ricordano un mercato calcistico, senza nessun eccesso in termini di bilanci taroccati. È inoltre un sistema dove nulla impedisce che una università decida di diventare di ricerca e non di didattica: basterà che si getti con successo nella mischia della competizione.
Un sistema, quello britannico, che ha ormai superato il sistema italiano che negli anni Settanta e Ottanta era ancora in vantaggio. Lo testimoniano molti dei nostri giovani ricercatori più brillanti che non rientrano in Italia a causa della mancanza di gruppi di ricerca paragonabili a quelli inglesi e delle basse remunerazioni contrattuali data la loro qualità. Lo testimoniano le migliaia di studenti stranieri che si battono per entrare in una università inglese senza che pensino nemmeno per un istante di venire qui da noi. Lo testimonia lo stato delle infrastrutture delle università dei due paesi. Basterà guardare alcuni dati sulla ricerca per dollaro speso: 16 lavori scientifici contro 9; 70 citazioni contro 9. E poi 11 lavori scientifici per ricercatore contro 5,6 e 4,5 citazioni per ogni lavoro contro le 3,8. Sempre a favore del Regno Unito. E queste sono statistiche di fine secolo, le cose è probabile siano andate peggiorando di recente. Le statistiche aggiornate (per esempio quelle dell'istituto di educazione superiore di Shanghai) sulle migliori università europee colloca quattro università inglesi tra le prime cinque. Otto tra le prime venti. Trentatré tra le prime cento. Per vedere la prima italiana bisogna spettare il 34° posto. Ce ne sono solo sette tra le prime cento. Che cosa c'è ancora da dire?
Non è un caso che il sistema italiano produca questi risultati. È un sistema che paga tutti in maniera uguale, fannulloni e geni. Vero, alcuni geni fanno consulenze private ma è tempo che viene detratto agli studenti e all'università in genere. Così facendo, con la sua politica salariale non meritocratica, lascia al di fuori dei nostri confini tantissimi giovani che sanno di valere ben di più di quel che viene corrisposto a tutti. È un sistema che non alloca (se non marginalmente) fondi di ricerca in base alla qualità delle pubblicazioni dei singoli e che quindi non stimola la competizione su progetti di ricerca.
Figà Talamanca sostiene che mentre in Inghilterra i geni si concentrano in poche università, in Italia ogni università ha qualche genio. Vero. Peccato che i movimenti di capitale umano, quando remunerati, sono guidati dai poli di eccellenza: i più bravi vanno dove sono i più bravi perché renderanno ancora di più in un ambiente stimolante. Da noi, visto che il capitale umano non è remunerato, nessuno si muove da nessuna parte e le nostre università stagnano lasciando che i geni dialoghino con i fannulloni, senza creare valore aggiuntivo. Per produrre la diversificazione tra università di ricerca e di didattica, conclude il professor Talamanca, «bisognerebbe trasferire a forza o con costosissimi incentivi, i docenti da una sede all'altra» (en passant: quello che è stato fatto finora in Italia con il quasi-obbligo di andare a insegnare almeno un triennio fuori di casa prima di tornare alla città natia). E perché mai? Nel sistema inglese i traslochi sono volontari e costituiscono momenti di grande gioia per i ricercatori bravi che, sulla base di offerte allettanti di università in competizione tra loro, si muovono verso mete economicamente ed intellettualmente più stimolanti.
Non so perché il professor Talamanca, parlando del sistema italiano, dice «non si può più tornare indietro». Mi sovvengo della frase di Kant che il ministro Padoa Schioppa ha apposto come incipit del suo Dpef di quest'anno: «Coloro che dicono che il mondo andrà sempre come è andato finora contribuiscono a far sì che l'oggetto della loro predizione si avveri». Su una cosa però il professor Figà Talamanca ha ragione quando cita Keynes: «a lungo andare saremo tutti morti». In Italia, ovviamente. Per mancanza di coraggio, fantasia e idee e, naturalmente, ricerca d'eccellenza.


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