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Riformista: La proposta di Piga è pura accademia Il modello italiano non è quello inglese

UNIVERSITÀ. LA SCELTA RISALE AGLI ANNI ’60 DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA

27/10/2006
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Il Riformista

Non si può dar torto al professor Gustavo Piga, quando auspica, sul Riformista del 25 ottobre, un uso più oculato delle risorse disponibili da parte delle Università. Ma nessun professore di economia può resistere alla tentazione di proporre rimedi miracolistici a tutti i mali dell'università italiana. In questo caso non viene invocato il “dio mercato” perché dalla macchina scenica discenda a dispensare razionalità ed efficienza. Con una maggior dose di realismo, Piga, invece, invoca un intervento del governo, che dovrebbe premiare con finanziamenti fortemente differenziati le università dove si svolge ricerca eccellente. Le università ne risulterebbero classificate in due o più classi. Da un lato le università di prima classe ovvero “research universities”, ben finanziate, dove si svolgerebbe ricerca di rilievo, e dall'altro le università di seconda classe, “teaching universities”, dove invece si farebbe solo insegnamento. Ci si uniformerebbe in questo modo al modello della Gran Bretagna, dove appunto, a partire dagli anni Novanta, una severissima valutazione della ricerca, associata a finanziamenti molto differenziati, avrebbe prodotto questo benefico effetto.
Lasciamo ad altri le discussioni ideologiche sull'opportunità in generale di un sistema di istituzioni universitarie diversificato in due o più classi. Quello che è opportuno contestare al professor Piga, ma anche alle “sacre scritture” cui si ispira (gli scritti del suo collega Perotti), è la descrizione e interpretazione di ciò che è avvenuto in Gran Bretagna. Si tratta di un punto importante, perché ciò che è avvenuto in pratica in quel paese, dimostrerebbe la fattibilità della proposta per l'Italia.
In realtà, al contrario dell'Italia, il Regno Unito, almeno fino dagli anni Sessanta, aveva già scelto un sistema di istruzione superiore basato su due livelli di istituzioni. Alle università si affiancavano i cosiddetti polytechnics, che godevano di minore autonomia, e i cui docenti, non avendo obblighi di ricerca scientifica, erano impegnati a pieno tempo nella didattica. Nel 1992 fu deciso di promuovere “ope legis” tutti i polytechnics a università. Ma i polytechnics costavano meno, perché i loro docenti avevano compiti didattici più gravosi, e perciò venivano finanziati meno delle vecchie università. Ovvie ragioni finanziarie imponevano quindi di trovare un modo per giustificare le differenze nella spesa e ristabilire a posteriori, in termini di finanziamento, la distinzione tra polytechnics e università, formalmente abolita. Lo strumento fu quello di un finanziamento differenziato sulla base di una valutazione della effettiva ricerca svolta nelle diverse sedi. Il risultato di questa valutazione è stato, prevalentemente, quello che tutti si aspettavano. Le vecchie università risultarono meritevoli di maggiori finanziamenti e gli ex polytechnics rimasero all'asciutto. Questo almeno fu il risultato generale, anche se non mancarono alcune sorprese (in gran parte prevedibili). Insomma, non è vero che in questo modo fu prodotta la separazione delle università in “teaching universities” e “research universities”. Questa separazione già esisteva e la valutazione si limitò a constatarla.
Veniamo ora al caso italiano. In Italia l'ipotesi, avanzata negli anni Sessanta, di creare istituzioni universitarie “minori” dove non si svolge ricerca scientifica fu decisamente rifiutata. È inutile ora chiedersi se si trattò di una decisione opportuna. Il fatto è che il sistema universitario si è sviluppato altrimenti, e non è più possibile tornare indietro. Infatti, una valutazione della ricerca scientifica universitaria, completata in Italia meno di un anno fa, con metodi che si ispiravano a quelli inglesi, ha rivelato che in tutte le grandi e medie sedi universitarie si svolge ricerca considerata eccellente in tutte le aree scientifiche. Come nel caso inglese questo risultato corrisponde all'esperienza comune. Nella stessa sede e nello stesso dipartimento convivono in Italia ricercatori del più alto livello internazionale e docenti appena in grado di insegnare a livello universitario. Un dato molto positivo è che spesso sono i più giovani a essere i più bravi. Per produrre la diversificazione auspicata dal professor Piga bisognerebbe trasferire a forza, o con costosissimi incentivi, i docenti da una sede all'altra, in modo da raccogliere in poche sedi tutti i docenti più attivi nella ricerca e nelle altre quelli meno attivi o i più scadenti. E quali sarebbero poi i vantaggi della nuova configurazione così ottenuta del sistema universitario?
In effetti forse, tra qualche decina d'anni, alla fine di questa costosissima operazione, si potrebbe pretendere dai docenti meno attivi un impegno didattico più intenso, come avviene appunto in Gran Bretagna nelle università di seconda classe e come è sempre avvenuto per i polytecnics. Teoricamente, tra qualche decina d'anni, se ne potrebbe trarre anche un risparmio. Ma si tratta di considerazioni puramente teoriche, che possono appassionare solo gli economisti, i quali, come è noto amano contemplare effetti che si manifesteranno “a lungo andare”, ignorando la beffarda battuta di uno di loro (Lord Keynes): «a lungo andare saremo tutti morti».