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Riformista: Non tiriamo la giacchetta alla scienza

Per ciò che riguarda l'attuale dibattito ci sono cose che alla scienza possiamo chiedere, a patto di accettare che le risposte comportano un margine di incertezza. Ci sono domande per le quali non possiamo pretendere risposte univoche. E ci sono domande a cui la scienza ha risposto, anche se molti preferiscono non tenerne conto.

07/02/2009
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Il Riformista

Eluana è in preda a terribili sofferenze. Niente affatto: non può provare dolore. Deglutisce e sorride. Non è vero, non reagisce agli stimoli. Potrebbe risvegliarsi. Anzi no, non può riemergere dal limbo dello stato vegetativo. È come un neonato. No, è morta 17 anni fa. A chi dobbiamo credere?
Lo schema è il solito: in campagna elettorale si parla di par condicio, nei tg si chiama panino. Qualche volta è una garanzia di pluralismo, ma più spesso è un motore di confusione. Invece di aiutare la gente a fare una scelta di campo consapevole, si abdica al dovere di fornire una corretta informazione. Soprattutto per le controversie di natura scientifica, perché la democraticità della scienza si basa su altre fondamenta: tutti hanno diritto di parola, ma le opinioni valgono nella misura in cui vengono sostanziate con i fatti. Per ciò che riguarda l'attuale dibattito ci sono cose che alla scienza possiamo chiedere, a patto di accettare che le risposte comportano un margine di incertezza. Ci sono domande per le quali non possiamo pretendere risposte univoche. E ci sono domande a cui la scienza ha risposto, anche se molti preferiscono non tenerne conto.
Nella prima categoria rientra l'irreversibilità dello stato vegetativo di Eluana Englaro, che dopo 17 anni non lascia speranze realistiche. Nessuno dei risvegli miracolosi che di tanto in tanto ci racconta la stampa ha mai retto a un'analisi accurata.
Si tratta di episodi aneddotici per i quali non esiste una documentazione adeguata, oppure di diagnosi sbagliate o di confusione da parte dei mezzi di informazione, che non fanno le dovute differenze tra disturbi della coscienza diversi anche per quanto riguarda la prognosi. Gli stati vegetativi sono considerati potenzialmente reversibili finché restano al di sotto delle soglie indicate da diverse task force e accademie scientifiche: un anno per i casi post-traumatici, sei mesi per i non traumatici. Si tratta di valutazioni probabilistiche, ma questa è la regola non certo l'eccezione in medicina. Sta al diretto interessato, o alle persone a lui più vicine, decidere che valore dare a queste probabilità.
Alla domanda sulla percezione del dolore la scienza può rispondere solo in modo approssimativo: la compromissione della corteccia cerebrale impedisce di provare l'esperienza della fame e della sete così come noi la conosciamo, ma nessuno può sapere con certezza cosa sente una persona in questo stato. La letteratura scientifica comunque smentisce l'ipotesi che si tratti di atroci sofferenze. La morte a cui si va incontro interrompendo la nutrizione artificiale non ha nulla di disumano, è umanissima: è la stessa morte che accomuna da centinaia di migliaia di anni tutti coloro che lasciano questo mondo in età avanzata, smettendo volontariamente di alimentarsi perché non hanno più la forza di vivere.
Veniamo alle domande a cui la scienza non può in tutta onestà rispondere: rientra in questa categoria quella sulla collocazione del confine tra la vita e la morte. Lo spiega bene Carlo Alberto Defanti nel suo libro: il morire è un processo e la morte cerebrale individuata dai criteri di Harvard non è l'unica possibile. C'è chi preferisce il criterio della morte cardiaca e c'è chi fa riferimento alla morte corticale. Come ha scritto il bioeticista Sandro Spinsanti sulla rivista "Janus", l'estensione del confine tra la vita e la morte è una variabile soggettiva. Può suonare sconvolgente, ma prima o poi dovremo rassegnarci al fatto che i decessi non si possono annotare come nelle serie televisive ambientate in ospedale, quando il medico si toglie guanti e mascherina segnando l'ora esatta.
Ma c'è anche una terza categoria di domande per le quali è facile trovare una risposta ferma a patto di seguire un ragionamento di tipo scientifico, che si affida alla logica anziché alle emozioni. La nutrizione artificiale è un trattamento medico, perché richiede competenze medico-farmaceutiche ed infermieristiche specializzate, tanto più se per infilare la cannula è necessario un intervento chirurgico. Possiamo scegliere di non tenerne conto, ma hanno ragione Giuseppe Gristina, Manrico Gianolio, Davide Mazzon e gli altri medici che hanno firmato la lettera aperta «L'etica, la politica e la libertà della scienza»: in questo caso dobbiamo assumerci la responsabilità di argomentare le nostre posizioni sul piano politico, religioso, filosofico, senza pretendere di avere l'avvallo della scienza.
Non basta trovare un neurologo pronto a farsi intervistare e a darci ragione per sostenere che la scienza sta dalla nostra parte. E non basta neppure un parere emesso da qualche organo ad alto tasso di politicizzazione come il Comitato nazionale di bioetica (per altro in presenza di una spaccatura tra membri laici e cattolici) per essere legittimati a tirare la giacchetta alla scienza.
di Anna Meldolesi