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Riformista: Una Fondazione Due alla Asimov per cambiare faccia all'università

ACCADEMIA E SOLITI RITI

24/10/2006
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Il Riformista

Al centro strategico del programma elettorale dell'Unione e soprattutto di Prodi e Fassino, appena qualche mese fa, si sbandierava lo spostamento di investimenti pubblici e di incentivi verso la ricerca, l'innovazione e la formazione, come unica leva possibile per contrastare il declino italiano. Il corto-circuito di questi giorni - i tagli all'università nella legge finanziaria, il ministro Mussi che si scontra per settimane con i gestori della “manovra”, il lungo silenzio dei vertici Ds e la sordità di Prodi finché Mussi non è arrivato a minacciare la crisi di governo, ed è già molto se al sistema universitario verranno garantiti i livelli di sopravvivenza dell'anno prima - ha lasciato delusi e sconcertati molti elettori del centro-sinistra, riportando allo scoperto i nodi di fondo che su questo giornale aveva descritto alla fine di agosto Alberto Abruzzese, in un lungo intervento “sconveniente” alla sua maniera. E prima che tutto ricada nella ritualità e nel luogo comune di un gioco politico sempre più in crisi, credo valga la pena di riprendere il discorso.
Dunque, perché - e da sempre - le risorse si trovano su trasporti, defiscalizzazione per le imprese, aerei militari e così via, ma non ci sono mai per l'istruzione superiore? La risposta è che sarebbe interesse generale investire sulle università, come fanno in modo vistoso i paesi forti in Occidente e in Oriente; ma quelle italiane non sono abbastanza propulsive, o meglio, solo su alcuni punti del nostro sistema varrebbe la pena di provarci. È la tesi di Confindustria, condivisa - se guardiamo agli atti concreti - da Padoa Schioppa. Di conseguenza, lesinare il finanziamento e sottoporre a valutazione la qualità degli atenei rappresenterebbero le sole due leve possibili per costringerle a rimettersi in moto (a lungo termine), destinando intanto gli scarsi quattrini in più solo alle imprese o a consorzi imprese/università, su progetti specifici, mirati sull'orizzonte a breve termine dell'innovazione industriale. E va detto che dietro la retorica diffusa sull'economia della conoscenza, larga parte del mondo politico, economico, giornalistico e anche accademico che conta la pensa effettivamente così (sebbene sotto elezioni o ai convegni si presti di solito a richieste roboanti di maggiori risorse e investimenti). Con l'ovvio effetto depressivo, sia in regime di gestione allegra tremontiana, sia anche ora, in presenza di una stretta dolorosa sui conti pubblici.
Si avvita così il classico giro vizioso: la storica miopia della politica, l'incapacità strategica delle imprese, la conseguente mancanza di riforme efficaci, il sottofinanziamento, la crisi endemica, la richiesta degli atenei di un rilancio a carico dello stato, e i programmi elettorali che proclamano di poter risolvere il problema con mezzi normativi e finanziari. Posizioni - ha scritto Abruzzese - sulle quali “convengono” agli accademici e i politici, compromessi in un loop di «verità senza possibile soddisfazione». Mentre l'università, per essere credibile, avrebbe bisogno di essere immaginata e ripensata da soggettività nuove, con uno sbocco di creatività e conflittualità che la reinventi al di fuori delle pratiche organizzative tradizionali (è la metafora abruzzesiana della Fondazione Due di Asimov).
Bene, il re è nudo: anche con il nuovo governo per ottenere una stabilizzazione della spesa ai livelli attuali e una modesta crescita in prospettiva si è dovuto aprire lo scontro nell'Unione; i rettori sono costretti all'ennesima rivolta annuale; e Confindustria ripete lo slogan dei «soldi solo alle eccellenze». Continuiamo a sostenere - questione di buon senso, visti gli ingenti e crescenti investimenti pubblici dei nostri competitori - che è assolutamente necessario investire sulla “classe creativa” ancora così debole di cui disponiamo, evitando di deprimere irrimediabilmente chi conserva in questo paese la passione e la capacità della ricerca. L'impegno di questo ministro non è rituale. E tuttavia discutiamone fino in fondo: è riformabile, e come, l'università?
Cambiamenti anche profondi, come l'autonomia o l'articolazione dei tre livelli di laurea, hanno sostanzialmente esteso il modello organizzativo, la “costituzione materiale”, le culture professionali consolidate già dagli anni Ottanta. Che ora mostrano la corda. Alcuni dei nostri atenei e gruppi di ricerca sono considerati - in classifiche serie - nel gruppo di testa a livello mondiale, ma la loro esperienza non è così facilmente trasferibile nel corpo del sistema. Torno a occuparmi della questione dal lato-governo a distanza di dieci anni (prima con Berlinguer, ora con Mussi), e riecco invariate e ripetitive - oggi anche insopportabilmente anguste - le pratiche tradizionali della gestione, degenerate spesso fino alla patologia; ma scopro intanto - nel magma di quasi due milioni di persone che l'università la abitano - alcune zone del sistema universitario in via di sorprendente miglioramento, in grado di offrirci indicazioni precise; e tendenze all'innovazione spontanee, generate dal basso, come vettori potenzialmente rivoluzionari. Ne segnalo qui solo due, anche se dal mio osservatorio ne vedo emergere diversi altri.
Primo vettore, il laboratorio. Sono propulsivi quei centri che riescono a mettere a fondamento effettivo del lavoro - che è anche piacere e creatività nell'apprendimento - il luogo delle pratiche reali ma anche virtuali e reticolari, dove si sviluppa collettivamente ricerca e conoscenza, usando l'aula solo quando è proprio indispensabile per conferenze e meeting di gruppi numerosi. Va ribaltata la struttura organizzativa e fisica dell'università, come va ribaltato il senso, la soggettività dell'apprendimento, abbandonando i modelli ottocenteschi e in seguito tayloristici del trasferimento di conoscenze da uno a molti. Anche la nuova governance andrebbe fondata sulle cellule dei laboratori; e del resto è fatiscente il vetusto castello degli “insegnamenti”, base della piramide degli “organi accademici” e della costellazione relativa dei poteri, sbilanciate tra una formale democrazia e una pesante gerarchizzazione e burocratizzazione. E i laboratori si possono fare anche insieme alle imprese e alle strutture dei servizi pubblici. Anzi si debbono fare. Né è necessario per questo importare modelli aziendalistici: la missione di ogni struttura va condivisa e negoziata con il mondo, contrastando con la libertà e la curiosità della ricerca il “monoculturalismo” e l'autoreferenzialità. Le forme organizzative, insomma, se il fondamento si sposta dall'insegnare verso il ricercare e l'apprendere, si trovano e si inventano localmente (alleggerendo quelle norme obsolete e solo falsamente garantiste che fingono di organizzare gli “stati giuridici”, fino alle perle recenti della “riforma” Moratti). Il tessuto universitario dovrebbe rigenerarsi capillarmente: né “eccellenze senza massa”, né le attuali finte università di massa, che mimano soltanto i processi di apprendimento (quelli veri, il più delle volte, lo studente se li costruisce da solo, dalla sua postazione di casa e altrove).
Secondo, l'apertura alle culture delle reti. Il professionista del “mondo esterno” che insegna a contratto - e spesso a compenso zero, per interesse o per passione - è una ben mediocre soluzione per un apprendimento-ricerca che si sposta sempre di più sulla virtualizzazione, sul quotidiano di ogni luogo di lavoro o di divertimento. Di vita “reale”. Il rapporto fra tecnologie digitali e lavoro universitario sta generando una metamorfosi ancora lenta; ma in tempi molto brevi i modelli mentali delle nuove generazioni saranno dominanti. Già oggi la vera scommessa è nell'oscillazione, nel conflitto e ibridazione fra gli schemi di accumulo e rigenerazione della conoscenza ancora post-gutenberghiani e quelli in arrivo, e questo riguarda il pensiero umanistico e quello scientifico. Riorientare il lavoro nelle università in questo senso non è questione di avanguardia, ma già di inseguimento, di recupero, di rivitalizzazione. Senza il quale l'apprendimento a livello superiore e la stessa ricerca in molte sue larghe zone può riprodursi altrove, e sotto altri centri di controllo. Prevedibilmente assai meno liberi.
I luoghi, le reti… Anche su questo piano, internazionalizzare il nostro sistema non è forse questione di importare modelli tout-court. Ma uno sguardo alle pratiche più interessanti non può far male… Ivi inclusa, naturalmente, la valutazione esterna dei risultati (esercitata da un'agenzia pubblica e indipendente), che insieme al tentativo di potenziare e di cambiare radicalmente il sistema di reclutamento dei giovani docenti-ricercatori, e ad alcune sostanziali novità nel sostegno alla ricerca, rappresenta la parte innovativa voluta dal ministro Mussi nella Finanziaria 2007.
Dopo, l'intenzione è di entrare in un altro ordine di idee. Se il nostro riformismo riuscirà a sfuggire dal gioco dei contenitori politici senza contenuto, una risposta sincera alla lettera aperta di Abruzzese credo possa consistere in questo: con ogni energia proveremo ad abbandonare più risolutamente la fase estensiva delle università, a passare a quella intensiva. Ma su tutto ciò occorre una riflessione aperta e anche conflittuale dall'interno, una Fondazione Due non clandestina.
Giovanni Ragone
Consigliere politico del ministro per l'Università Fabio Mussi