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Scuola e ricerca, la ricetta per crescere

Parla Patrizio Bianchi, economista e assessore in Emilia Romagna. Competere riducendo il costo del lavoro ci condannerà a produzioni di serie B. In questa fase manca il ruolo guida della poltica

18/02/2012
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Rassegna.it

DI STEFANO IUCCI

 

Scuola e ricerca, la ricetta per crescere (foto di Attilio Cristini) (immagini di Attilio Cristini)
In Italia, anche nella fase peggiore della crisi in atto, ci sono imprese fortemente competitive che operano in produzioni a forte valore aggiunto. Il punto allora – se davvero, fuori dalle ideologie, si vuole generare crescita e sviluppo – è capire come estendere questa competitività al resto del paese, puntando contemporaneamente sulla qualità del lavoro. Patrizio Bianchi, economista, professore universitario e assessore al Lavoro, università, ricerca e scuola della Regione Emilia Romagna, non ha dubbi: serve una nuova forte politica industriale che sia in grado di indicare la rotta, investendo pesantemente in ricerca ed educazione. “Se lei guarda ai dati disponibili – spiega a Rassegna –, la situazione è chiara. Anche tra il 2009 e il 2010, gli anni più duri della crisi, una parte delle aziende italiane è cresciuta a ritmo sostenuto”.

Rassegna È una cosa di cui non si parla...

Bianchi E invece è così, soprattutto nel comparto della meccanica, nelle macchine per la produzione. Qui operano imprese non soltanto innovative, ma anche fortemente connesse con paesi extraeuropei che crescono a ritmo sostenuto. Il tema dunque è questo: come si fa ad ampliare questa base di imprese produttive che, secondo Bankitalia, nel 2009 erano l’8-10 per cento del totale, vale a dire circa 5.000?

Rassegna Già, come si fa?

Bianchi Le chiavi disponibili sono due: ricerca ed educazione. Innanzitutto bisogna riuscire a consolidare strutture in grado di stare non solo sulla frontiera della ricerca, ma anche di fare da catalizzatrici al resto del nostro sistema diffuso, università, Cnr e istituti vari. La seconda chiave, altrettanto evidente, è il recupero di una capacità di investimento nell’educazione superiore e tecnica. Questa è la linea che stiamo perseguendo in Emilia Romagna, con interventi massicci in tale direzione. Tutti parlano di economia della conoscenza, ma se non si investe sulle persone si può fare ben poco. Non basta acquistare computer, per intenderci.

Rassegna Come si declina, secondo lei, un moderno intervento pubblico nell’economia, a parte ciò che ci ha appena detto?

Bianchi Il pubblico ha un ruolo essenziale innanzitutto nell’indicare la direzione di marcia in cui muoversi. Perché la questione sviluppo non si risolve puntando su singoli innovatori e singole eccellenze. La vera innovazione è solo di sistema: tutto deve muoversi. E qui un compito fondamentale e centrale è riservato alla politica: dare una rotta netta e chiara perché s’investa sulle persone. Il capitale umano è la nostra più grande ricchezza. Il problema, non da poco, è che oggi la politica sembra la parte più fragile in campo.

Rassegna In questi 150 anni, tuttavia, la scuola ha fatto molto per innalzare i livelli di conoscenza delle persone.

Bianchi È vero. Una scolarizzazione bassa, ma molto diffusa, ha prodotto molte eccellenze che hanno trovato sbocco nei distretti industriali. Ma ora non basta più: occorre costruire sistemi educativi integrativi e capaci anche di trainare i sistemi produttivi.

Rassegna Per far questo servono risorse…

Bianchi Sì, e questo è il noto punto dolente. In Italia gli investimenti nell’educazione, in proporzione al totale della spesa pubblica, sono i più bassi tra i paesi Ocse.

Rassegna Ultimamente, l’Europa ha messo molta enfasi sull’impiego dei fondi comunitari per creare sviluppo e occupazione. Cosa ne pensa?

Bianchi Credo che l’indicazione sia giusta. L’Europa sta ridisegnando i suoi principali strumenti di sostegno: i fondi strutturali e i fondi Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione. In questa fase c’è una discussione assai accesa sulla direzione che entrambi gli strumenti devono prendere.
A mio parere, l’Italia deve esprimere una posizione che spinga verso una forte convergenza dei due, rifiutando ogni ipotesi di “condizionalità macroeconomica”, cara ai tedeschi.

Rassegna Cosa implica questo tipo di “condizionalità”?

Bianchi Per la Germania, non bisogna dare risorse a chi non ha conti macro a posto. Secondo me, invece, la condizionalità deve essere interna: i fondi vanno assegnati non ai paesi, ma alle loro macroaree, cioè a chi dimostra di saperli spendere al meglio. La dimensione territoriale per la crescita è fondamentale. Quindi, niente sussidi alle imprese e neanche alle persone – se non per situazioni transitorie in cui c’è bisogno di tutelare redditi –, ma interventi sull’intera comunità. E qui torniamo a quanto detto prima: Unione europea e singoli paesi devono investire per realizzare infrastrutture educative e di ricerca, e per legare le imprese a questo sistema. Ecco il compito per una moderna politica industriale: la capacità di mettere insieme tutti questi pezzi di ragionamento.

Rassegna Quale posto spetta all’Italia nella nuova divisione del lavoro generata dalla globalizzazione e dall’emergere di nuove potenze economiche?

Bianchi Le risponderò utilizzando una parola, unbundling, che vuol dire “spacchettamento”. Si prende un ciclo produttivo e lo si divide a metà: le attività a basso valore aggiunto (per esempio l’assemblaggio) si trasferiscono all’estero, quelle ad alto valore aggiunto (lo stile, la ricerca) rimangono. D’altro canto, non c’è alternativa, perché se si vuole provare ad attrarre le attività “povere”, l’unico strumento è tagliare all’infinito il costo del lavoro. Se invece si punta sul versante “alto” della produzione, bisogna trovare politiche che riducano il costo della parte che riguarda l’intelligenza e la ricerca, e dunque investire su scuole, ricerca, educazione permanente, rafforzando il legame tra chi fa ricerca e chi produce.

Rassegna Oggi si parla tanto di mercato del lavoro e poco di politica industriale, però.

Bianchi Attenzione: le politiche occupazionali in alcuni casi possono diventare trappole mortali. Se si precarizza il lavoro, è fatale che dopo un po’ si precarizzino le produzioni stesse e, conseguentemente, se ne abbassi il valore. Se invece vogliamo consolidare attività ad alto livello, bisogna creare un ambiente e una condizione di qualità che permetta loro di crescere.

Rassegna Un altro tema, da molti invocato quando si parla di crescita, è quello di aumentare la produttività delle nostre aziende. È d’accordo?

Bianchi Dipende da cosa si intende esattamente. Lei può anche riuscire a spostare 4.000 blocchi di cemento in poche ore al di là di un muro, ma se poi è costretto a riportarli indietro, a cosa le serve? Se invece accrescere la produttività vuol dire aumentare il valore aggiunto per unità prodotta, questo allora ha davvero senso. Un conto è la produttività del lavoro misurata a prodotto dato e processo dato. Vale a dire: lavorate di più. Un conto la capacità di andare a vedere quanta “testa” ci si mette dentro a un prodotto e così cambiare e migliorare il processo e il prodotto stesso. Insomma, la questione è sempre la stessa. Nella competizione globale si può ragionare in termini puramente difensivi: proviamo a vedere se ce la facciamo, riducendo i costi e lavorando di più. Ma così non si va lontano. Oppure, al contrario, si va all’attacco, producendo cose e servizi più utili, necessarie e legate ai mercati di sbocco finali. Inutile dire che, per me, a questa seconda strada non c’è alternativa.

Rassegna Da un po’ di tempo, la Cgil insiste sulla necessità di un Piano del lavoro per favorire non solo l’occupazione, ma anche la crescita complessiva del paese. Cosa ne pensa?

Bianchi Guardi, tra le fortune della mia vita c’è quella di aver trascorso, ormai qualche anno fa, un’estate a Londra con Vittorio Foa che mi parlava spesso del Piano del lavoro, proposto dalla Cgil negli anni Cinquanta. Proprio in questi giorni, sto ripensando a quelle chiacchierate e sono convinto che rideclinare oggi un’operazione simile significa offrire incentivi alle imprese, non solo perché stabilizzino i giovani, ma perché insieme ne innalzino le competenze e, così facendo, aumentino il proprio know how. Un circolo virtuoso, che stiamo cercando di realizzare in Emilia Romagna, dove “paghiamo” alle imprese che accedono alle risorse regionali percorsi formativi per i giovani che vengono stabilizzati, portandoli anche fino al dottorato. Stabilizzazione, crescita e qualità, dunque: non c’è altra strada.