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SCUOLA/ FIORONI: PER RIFORMA MATURITA' RISPETTEREMO TETTO SPESA

Non faremo come Cdl che dimenticava di pagare docenti

08/11/2006
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ISLAM. A PROPOSITO DI SCUOLA ARABA E VELO DI MARIO RICCIARDI
Per la convivenza non serve una legge
L'Italia si ispiri al modello anglosassone
C'è una “questione islamica” nella società italiana? A giudicare dal modo in cui vengono affrontati certi problemi si sarebbe tentati di rispondere in modo affermativo. Si pensi, ad esempio, a quel che è accaduto alla riapertura della scuola islamica a Milano. L'ingresso dei bambini nell'edificio dove si tengono le lezioni, seguito da una folta rappresentanza delle televisioni locali e nazionali, è avvenuto in contemporanea a un presidio promosso dalla Lega Nord. La serenità dei giovani iscritti, che andrebbe tutelata comunque, è stata sacrificata in ossequio al desiderio di creare il “caso”, di trasformare una vicenda, che presenta aspetti sia positivi sia negativi, in un simbolo da utilizzare per fini di propaganda. Una brutta storia, che piuttosto che attaccamento agli ideali dell'integrazione scolastica sembra testimoniare l'incapacità di larghi settori dell'opinione pubblica del nostro paese di distinguere, attribuendo alle ragioni di ciascuno il giusto peso.
Lo stesso tipo di atteggiamento si riscontra anche nella discussione sul velo che improvvisamente sembra essere diventato un problema prioritario, al punto da provocare una rissa televisiva seguita da un lungo strascico di polemiche che non ha contribuito a chiarire quale sia esattamente l'oggetto del contendere. Ciò che sorprende è che, in entrambi i casi, abbiamo a che fare con questioni che sono state già affrontate in passato da altri paesi europei che, in modi diversi, hanno cercato di dare una risposta al problema della compatibilità di credenze, usi e costumi importati da altri continenti con le proprie tradizioni e convinzioni. L'esperienza di questi vicini è istruttiva per diverse ragioni. In primo luogo, perché suggerisce che la questione del velo non può essere affrontata in astratto. C'è una differenza importante tra diversi tipi di copricapo o di indumento femminile che, in alcune tradizioni locali, si ritiene obbligatorio o preferibile indossare. Come è evidente, la copertura dei capelli è cosa ben diversa da quella del viso o di parte di esso. Inoltre, e questo è un punto che vale la pena di sottolineare, la qualifica generica di “islamico” che viene attribuita in molte dichiarazioni ad un altrettanto generico velo, trascura una questione cruciale: la convinzione che il corpo femminile vada preservato dalla concupiscenza coprendolo era, ed è, largamente diffusa in varie culture anche indipendentemente dal Corano. Incluso nella nostra, come testimoniano le foto delle popolane meridionali di non molti anni addietro. La parola di Dio, raccolta dal profeta dell'islam, contiene indicazioni in questo senso, ma non può certo essere considerata il fondamento esclusivo di tradizioni che, ad esaminarle senza pregiudizi, presentano notevoli variazioni e adattamenti al mutare delle circostanze.
Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe sostenere che porre la questione del velo come se fosse un problema unitario, magari da risolvere con una legge, potrebbe trasformare pratiche sociali di diversa importanza e impatto in un simbolo di identità, da difendere da un'aggressione. In effetti, è proprio quel che è accaduto in Francia, dove un'interpretazione rigida, e in fondo illiberale, della laicità ha contribuito a esacerbare i rapporti con gli immigrati. Più illuminato è stato invece l'atteggiamento del governo britannico, che da sempre persegue una politica di riconoscimento delle pratiche delle diverse comunità etniche e religiose quando queste non interferiscono con la libertà delle persone e la sicurezza di ciascuno. La strada di un pluralismo ragionevole, esemplificata dall'approccio britannico, è preferibile perché consente di modulare la risposta ai problemi generati dalla compatibilità tra diversi usi e credenze in modo da favorire l'emersione di interpretazioni alternative all'interno di ciascuna tradizione. Invece di arroccarsi a difesa della propria identità, i cittadini di origine asiatica, africana o caraibica sono messi in condizione di scegliere tra diversi modi di intendere la propria identità o di sperimentare nuovi progetti di vita. Per questo, nonostante gli attacchi terroristici dello scorso anno, il modello di convivenza del Regno Unito si presenta come ancora largamente vitale e in grado di generare al proprio interno le risorse per combattere il fondamentalismo.
A questo modello dovrebbe ispirarsi anche la politica italiana. Ampliare le opzioni invece di ridurle. Riconoscere le tradizioni piuttosto che mortificarle. Facilitare l'apertura di scuole, sorvegliando in modo discreto i contenuti, il metodo e la qualità dell'insegnamento. Tutto ciò valorizzando le voci ragionevoli, anche se queste ci costringono a ripensare le nostre intuizioni consolidate in materia di libertà e eguaglianza. Solo in questo modo è possibile evitare che una crisi di adattamento della nostra società si trasformi in un conflitto le cui conseguenze sarebbero drammatiche per tutti.