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Scuola, l'aumento delle promozioni non è per forza una buona notizia

di GIORGIO ISRAEL

12/07/2012
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Il Messaggero


SECONDO le cifre rese note dal ministero dell’Istruzione, il numero degli studenti bocciati è diminuito sensibilmente negli ultimi due anni. I primi dati relativi agli esami di maturità vanno nella stessa direzione: il numero dei promossi cresce. Non si dispone ancora di dati completi, ma anche quando vi saranno occorrerà ricordare che i numeri vanno interpretati, altrimenti sono inutili. È un’avvertenza non superflua in un periodo contrassegnato dal culto per le statistiche. Una situazione che assume connotati parossistici in Italia per una lunga tradizione storica culminata nella passione che Mussolini nutriva per l’argomento, al punto che egli considerava come una delle sue più importanti realizzazioni l’Istituto nazionale di statistica, fondato dal celebre scienziato Corrado Gini. Questi ne fu presidente per anni, si recava periodicamente dal Duce con le sue tabelle e deteneva un potere superiore a quello di un ministro, avendo la facoltà di presentare direttamente leggi in parlamento. Va detto che per il Duce la statistica aveva una finalità precisa: fare le scelte più adatte a determinare la crescita numerica della popolazione italiana in base al principio che «numero è forza», e controllare man mano la realizzazione di tale obbiettivo.
Venendo al nostro tema ci si chiede quale sia la finalità in base alla quale la crescita del numero dei promossi può essere considerata un fatto positivo. La domanda non è strampalata come può sembrare, visto che si leggono commenti secondo cui la diminuzione di bocciati in due anni corrisponde a un risparmio di circa 325 milioni di euro, per la gioia del presidente Monti.
Se questo fosse un fine accettabile, allora tanto varrebbe emettere una circolare, o addirittura un decreto che sopprima le bocciature in nome dell’emergenza economica nazionale.
Scartando questo approccio, è da supporre che l’incremento dei promossi risponda al fine di migliorare la qualità dei nostri studenti. Si leggono commenti del tipo «i nostri studenti sono più bravi», e qualcuno ha messo saggiamente «bravi» tra virgolette. Difatti, la vera domanda è: l’aumento di promossi corrisponde a un miglioramento degli apprendimenti oppure a una crescente «manica larga» nei giudizi, o addirittura a un dilagare della prassi del «copiare» nelle prove scritte?
Secondo un sondaggio di studenti.it, durante il «quizzone» degli esami di maturità molti studenti hanno copiato: il 29% ha dichiarato di aver copiato tutto, il 19% di essere riuscito a copiare abbastanza, il 9% poco. Insomma, quasi il 60% avrebbe copiato. Molte altre testimonianze raccolte dal Gruppo di Firenze vanno nella stessa direzione e denunciano il fatto che diversi insegnanti abbiano agevolato il copiare. Ciò concorda con la recente denuncia che i test Invalsi siano stati svolti spesso in collaborazione, talora con l’aiuto dell’insegnante e che il requisito dell’anonimato sia stato in parecchi casi violato. È quasi superfluo dire che se si è copiato, e molto, e se questo fenomeno si è verificato a livello di tutte le prove, l’incremento del numero dei promossi è un indice pessimo.
Il fatto inquietante è che, malgrado i numerosi e autorevoli appelli al ministero a prendere una posizione molto netta sul malcostume del copiare – e a schierarsi con forza dalla parte degli insegnanti e degli studenti rigorosi e onesti – non si è udito nulla salvo qualche mormorio reticente. Al contrario, a questo silenzio fa da contrappunto un insistente battage sul nuovo modello di scuola da adottare. Si parla di scuola come web community, in cui le conoscenze si costruiscono a casa, con un lavoro di gruppo, su internet e wikipedia, per poi «verificarle» a scuola con l’insegnante.
In alcuni convegni si è persino autorevolmente patrocinata l’idea che gli studenti si alternino alla cattedra con l’insegnante. È facile da intendere cosa possa restare, in un simile contesto, del principio che chi è competente (l’insegnante) verifichi in modo rigoroso l’acquisizione personale (e non collettiva) di conoscenze e capacità: nulla.
Strano Paese il nostro. Soffriamo di livelli record di evasione fiscale che stimolano risposte sempre più rigorose, talora eccessive nei confronti degli onesti. Gli evasori fiscali sono additati come criminali che distruggono il Paese e diffondono un modello di comportamento immorale. Si prendono a esempio gli Stati Uniti dove una piccola frode fiscale può portare in carcere e l’evasione è considerata un reato ignobile. Ma negli Stati Uniti copiare a scuola o all’università è un reato ignobile come l’evasione fiscale e uno studente pescato a copiare vedrebbe compromessa la sua carriera scolastica.
Invece da noi copiare è considerato una pratica simpatica, chi la fa o la facilita una persona di buon senso e «aperta» al nuovo, e chi la depreca un retrogrado attaccato a modelli reazionari. Non ci si pone la domanda giusta, e cioè se, strizzando l’occhio con compiacimento a chi copia, non stiamo usando la scuola per fabbricare legioni di evasori fiscali, di nullafacenti e di incompetenti che pretenderanno di andare avanti senza sottoporsi a controlli e verifiche di merito.
Non ci si pone questa domanda, anzi, a suggello di questa schizofrenia, non si fa che pontificare di «meritocrazia» (ma cos’è la meritocrazia senza la verifica delle competenze individuali?) e s’inonda la scuola con la retorica dell’«educazione alla cittadinanza» e alla «convivenza civile». Non ha senso parlare di «miglioramento» degli apprendimenti se non si guarda alla sostanza, al modello di scuola che sta venendo avanti. Per esempio, occorrerebbe discutere seriamente delle nuove Indicazioni nazionali per le scuole primarie, che delineano livelli di apprendimento sempre più al ribasso, sempre più modesti, oltretutto formulati in un modo che lascia interdetto chi abbia competenza in materia (penso in particolare alla matematica); e che contribuiranno a fare delle scuole primarie un’area di parcheggio in cui le capacità dei bambini saranno sempre più frustrate.
Sono questi i fatti di cui occorre parlare e a partire dai quali si può interpretare il senso dei numeri, che di per sé non significano nulla.