Scuola: quanti equivoci (e trucchi) stanno dietro il bonus merito
Di Max Ferrario.
Entro lo scorso dicembre, i dirigenti hanno scelto gli insegnanti più meritevoli. Se i dati riportati dal quotidiano Repubblica sono corretti, sono 247.872 i docenti di ruolo che hanno beneficiato del cosiddetto bonus per la valorizzazione del merito, introdotto dalla legge 107/2015: più di uno su tre. Non crediamo che — perlomeno nella maggioranza dei casi — i dirigenti abbiamo dato il bonus ad amici e parenti, come si vociferava. E neppure ai loro "preferiti". Non è sull'azione dei Ds che vogliamo porre l'attenzione, ma sul dispositivo in sé che, sicuramente, ci sembra rispondere ad un'esigenza sentita dai più: non tutti lavorano allo stesso modo e sembra ingiusto — per parafrasare don Milani — fare parti uguali tra diseguali. Il punto è come e chi valorizzare. Sembrerebbe semplice individuare i docenti "più bravi", ma non lo è affatto. Ad ora non esistono dati certi, da analizzare con una certa attendibilità. Però vorremmo iniziare a fissare qualche riflessione, prima che la pratica cada nel dimenticatoio e ricompaia, tale e quale, il prossimo anno. Questione n. 1. Chi hanno premiato i dirigenti? I docenti più attivi e disponibili, sempre pronti a rispondere alle esigenze emergenti nella scuola, oppure quegli insegnanti meno in vista, più discreti, ma che fanno bene il loro mestiere, come ha scritto su questo giornale Giorgio Chiosso? È vero che, di solito, le due cose non sono in antitesi. Il bravo insegnante "in classe" si occupa anche delle attività "fuori dalla classe": ma non sempre è così, e non sempre è vero il contrario (cioè che l'insegnante che si occupa dei progetti ecc. sia anche quello più bravo in classe). Questione n. 2. Non lo sappiamo con certezza, ma il dubbio che, alla fine, i Ds abbiamo assegnato i fondi (non tanti, per la verità) ai secondi, non ai primi, ci rimane. Comprensibilmente i Ds hanno cercato e premiato le persone che li affiancano in un'impresa che — ahimè — è sempre più schiacciata da incombenze burocratiche (il Rav, il Pdm, l'alternanza, l'orientamento, i viaggi di istruzione, i progetti legalità, il bullismo, la banda larga, il registro elettronico, i rapporti con il territorio, le competenze da certificare, il curriculum verticale, la formazione obbligatoria, la digitalizzazione… e chi più ne ha, più ne metta). Qualcuno ci vuole che aiuti a tirare avanti la baracca, ci mancherebbe. Anche se, per questo, ci sembra che ci pensino già le funzioni strumentali, il fondo d'istituto e ora anche l'organico potenziato. Questione n. 3. Ma al bravo docente in classe, chi ci pensa? A quello che non fa il progetto teatrale "ufficiale", sovvenzionato, ad esempio, ma che si dedicata spontaneamente (non pagato) a costruire una rappresentazione con i suoi studenti. O che li porta in gita o al cinema fuori orario. O che passa ore e ore per preparare una lezione che li possa interessare. Che si prende a carico i casi più problematici (sempre fuori ora e sempre non pagato!).Chi premia o riconosce quel docente che guarda in faccia i ragazzi, si appassiona e si arrabbia anche… ma li guarda, tutto preoccupato di quel guazzabuglio che c'è in loro. Non nascondiamocelo: come si può "premiare" un insegnante così? Non fa "niente". Semplicemente è un bravo insegnante. Probabilmente farà anche altre cose fuori dalla classe, ma magari non sufficienti per ottenere un premio. Questione n. 4. Non è un problema di soldi, ma di riconoscimento. Allora — forse — hanno fatto bene quei presidi che non hanno esposto i nomi: perché, un po' inevitabilmente, ci si misura e ci si chiede "ma allora io non sono un bravo insegnante? perché l'altro sì e io no?" E non vorremmo, che per un piatto di lenticchie, si abbandonasse la giusta posizione, e si corresse dietro a ciò che dà il riconoscimento. Tre possibili rischi, allora. 1) Come ha scritto Mauro Monti su queste pagine, il primo rischio è quello "di realizzare, attraverso la premialità, una forma di appiattimento della professione docente, costruendo nel tempo un modello unico di docente bravo, mentre a scuola ci sono tanti modi di 'essere bravi', cioè efficaci, davanti alla pluralità dei bisogni formativi degli allievi". 2) Già ora ci sono docenti che percepiscono somme — talvolta non irrisorie — perché funzioni strumentali o impegnati in progetti: ma tutte queste attività sono sovvenzionate in quanto attività extracurricolari, non premiano la bravura! Ciò che c'è in ballo ora, è il riconoscimento della professionalità in classe. 3) Poiché i soldi sono pochi, molti Ds hanno dovuto lasciar fuori molti docenti che fanno il loro lavoro con grande dignità. E che forse avrebbero bisogno di un riconoscimento pubblico, prima ancora che di un incentivo economico. Il rischio è che tutto questo crei una divisione, anziché un incentivo. Sarebbe interessante capire se quello che abbiamo analizzato corrisponde a verità. Ci piacerebbe avere dei riscontri, ben consapevoli che la realtà è variegata e difficilmente può essere imbrigliata in facili schematismi e che ci sono presidi che hanno valorizzato anche il merito in classe, hanno distribuito i fondi per incentivare ciò che non è stato incentivato dal fondo di istituto, e così via. Ma è proprio l'impianto della legge (l. 107/2015 c. 129) che si sposta sul "fare" dei docenti, pur lasciando ampi spazi interpretativi. Ed è sempre nella ricerca di tali indicatori, che molti Ds hanno stilato liste molto dettagliate che, inevitabilmente, cercano dei riscontri in azioni oggettive e certificabili del docente. Come spesso accade, una buona norma, una volta attuata, mostra i suoi limiti: e, senza nulla togliere al lavoro alacre e intelligente di presidi, insegnanti, associazioni per trovare soluzioni efficaci, nell'attuale situazione della scuola italiana occorre probabilmente ripensare alla sua applicazione pratica e soprattutto agli "effetti collaterali", che rischiano di creare una certa disparità e divisione anziché innescare dinamiche positive. Meglio pensarci da subito, lanciando dei segnali chiari al ministero, prima che il Comitato nazionale di esperti che dovrebbe intervenire alla fine del triennio di sperimentazione progetti una scheda rigida, centralizzata e immodificabile, come spesso è successo negli anni passati, in dinamiche analoghe: e che a quel punto si potrà solo accettare, nel bene o nel male.