Scuola, Recovery fund e l’idea di pagare di più i prof che fanno carriera
Nel Piano messo a punto dal governo con le voci di spesa per scuola università ricerca (poco meno di 30 miliardi) prevista la possibilità di una retribuzione mensile maggiore per gli insegnanti più «dinamici e capaci di assumere responsabilità»
Gianna Fregonara e Orsola Riva
Sindacati (capeggiati dalla Uil) e associazioni di genitori e prof come Priorità alla scuola hanno deciso di scendere di nuovo in piazza oggi per chiedere al governo di cogliere al volo l’occasione del Recovery Fund per una stabilizzazione di massa dei docenti precari (si presume senza nemmeno uno straccio di prova concorsuale) in modo da risolvere una volta per tutte l’emergenza classi pollaio (limitata in verità soprattutto ai primi anni delle scuole superiori delle grandi aree metropolitane). Forse farebbero bene a buttare un occhio anche alle bozze in circolazione del cosiddetto PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che il governo ha messo a punto dettagliando le linee di spesa principali del Next Generation Italia. Dei 208 miliardi che la Commissione europea ha messo a disposizione dell’Italia, poco meno di 30 (28,5) sono quelli destinati al capitolo Istruzione e Ricerca, una ventina di pagine incentrate su tre obiettivi principali: migliorare le competenze degli studenti italiani, agevolarne l’accesso all’università investendo sul diritto allo studio, far dialogare in modo più efficace mondo della ricerca e imprese.
Dai prof più meritevoli ai più dinamici
La prima voce è quella che riguarda più da vicino il mondo della scuola. Partendo dagli arcinoti risultati dei nostri ragazzi nei test Ocse-Pisa (in cui i 15enni italiani ottengono risultati molto inferiori a quelli dei loro colleghi francesi, tedeschi e inglesi sia in italiano che in matematica e scienze, per di più con enormi disparità fra Nord e Sud, centro e periferie), il PNRR evidenzia la necessità di intervenire senza ulteriori indugi sul recupero di questo svantaggio facendo leva sul potenziamento dell’insegnamento delle Stem, cioè delle discipline tecnico-scientifiche (chissà poi perché non dell’italiano in cui invece negli ultimi anni – a fronte dei miglioramenti fatti in matematica - siamo rimasti fermi al palo) e sulla formazione degli insegnanti. Come? Qui viene la parte che dovrebbe interessare i sindacati. Perché apparentemente la proposta del governo riprende quella – a suo tempo avanzata da Matteo Renzi con la contestatissima riforma della Buona Scuola – di introdurre una forma di carriera per i docenti con stipendi modulati in base al merito (calcolato come non si sa) e al rango raggiunto. «Formare il futuro è un lavoro difficilissimo con alte responsabilità che deve essere accompagnato e valorizzato nel tempo», si legge nel testo. Valorizzato come? «Si deve quindi costruire una carriera docente dando l’opportunità ai docenti più dinamici e capaci di assumere responsabilità all’interno della scuola, accompagnata alla possibilità di crescere in ruolo. Potranno avere funzioni di coordinamento, progettazione o formazione dei loro colleghi, ricevendo per le loro mansioni aggiuntive e per la qualifica raggiunta una retribuzione mensile maggiore». Torna a fare capolino, insomma, l’ipotesi – già prevista dalla Buona Scuola ma a suo tempo travolta dalle proteste insieme al sistema di valutazione premiale degli insegnanti delegato ai presidi – di un differente trattamento economico per i docenti più «meritevoli». Nella versione renziana si trattava dei più esperti (scelti da chi e su quali basi?, era stata la replica unanime dei sindacati), qui – aggirando il problema - diventano i più «dinamici e capaci di assumere responsabilità», cioè - sembrerebbe di capire - quelli che adottano metodologie didattiche più innovative, ai quali andrebbe affidato il compito di fare da mentori ai colleghi (più pigri?) aiutandoli a uscire dal sistema a senso unico della lezione frontale (sempre ammesso che ci sia ancora qualcuno che si limita a quella) .
Colpo all’Invalsi
Neanche una parola invece sulla possibilità di migliorare la formazione iniziale degli insegnanti prevedendo almeno un corso di specializzazione universitario per i neo laureati che vogliono intraprendere la carriera docente. Mentre viene fatto riferimento esplicito alla possibilità di premiare le scuole che ottengono dei miglioramenti nei parametri più critici, «inclusi gli apprendimenti certificati nei test Invalsi»: un passaggio alquanto generico che sembrerebbe però alludere alla possibilità di dare più fondi alle scuole che nel tempo raggiungono risultati migliori nelle prove standardizzate. Un’ipotesi che se portata avanti rischierebbe di fornire un’arma letale nelle mani di chi da anni lavora contro l’Invalsi stesso: nei Paesi come gli Stati Uniti dove le scuole vengono già premiate in base ai risultati dei ragazzi nei test, si è prodotto col tempo l’effetto distorsivo di dirottare tutte le energie sul miglioramento dei punteggi nelle prove a crocette, mortificando altri insegnamenti ritenuti non essenziali a questo scopo. Col risultato ultimo e paradossale di non migliorare affatto, o almeno non in profondità, le competenze dei ragazzi.