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ScuolaOggi-DIBATTITO RIFORMA: UN "PATTO PER LA SCUOLA

"DIBATTITO RIFORMA: UN "PATTO PER LA SCUOLA In un Paese che fatica a guardare al proprio futuro (i tassi di natalità sembrano testimoniarlo), la scuola può assumere un ruolo positivo of...

21/10/2005
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ScuolaOggi

"DIBATTITO RIFORMA: UN "PATTO PER LA SCUOLA
In un Paese che fatica a guardare al proprio futuro (i tassi di natalità sembrano testimoniarlo), la scuola può assumere un ruolo positivo offrendo una prospettiva credibile per l'avvenire delle nuove generazioni. Provo a considerare alcune ipotesi di intervento secondo prospettive temporali diverse. La prima, più immediata, in cui occorre lanciare un segnale significativo: la scuola è per tutti e merita investimenti. E' necessario allora riattivare risorse funzionali all'integrazione degli alunni stranieri e dei diversamente abili e alla realizzazione di occasioni qualitativamente significative di apprendimento efficace (per esempio, compresenze per attività laboratoriali, insegnamento della lingua straniera nella scuola primaria da parte degli specialisti). Ma perché la scuola diventi interesse del Paese, è importante guardare oltre l'immediato e pensare in base a una prospettiva di più ampio respiro. Un governo alternativo all'attuale dovrebbe proporre un "patto per la scuola" in grado di raccogliere un ampio consenso sul piano sociale e politico - intorno ad alcuni orientamenti articolabili poi in proposte di politica scolastica che non comportino continue rotture e rimesse in discussione dell'intero sistema ad ogni cambio di maggioranza, con ciò esponendo la scuola ad una incertezza e precarietà di prospettive che indeboliscono il "senso" e incrinano l'efficacia degli interventi formativi.

Allo scopo di creare le condizioni favorevoli agli interventi riformatori, penso a due percorsi. Il primo. Sul piano sociale, sarebbe utile avviare un largo coinvolgimento generale in un dibattito che coinvolga scuole, insegnanti e genitori. L'esempio francese ha messo in evidenza qualcosa di importante: al di là dei punti di merito, ha certamente lanciato il messaggio che la scuola è problema e valore generale del Paese, non solo affare per addetti ai lavori. E come può un Paese assegnare valore alla scuola se non si facilita una circolazione di idee, pensieri, ipotesi sulla scuola? Se non si favorisce un confronto sui problemi e una riflessione intorno a esperienze comuni? Ma può emergere anche dall'esperienza francese - una riflessione: la consapevolezza che ogni cambiamento, prima di divenire un dato acquisito, muove pensieri, atteggiamenti, aspettative, e che alla fine è la rete di questi pensieri e di queste aspettative ad accogliere il nuovo, decidendone sovente il destino.

Insomma, ogni cambiamento è un contenuto da elaborare, mai una semplice disposizione da applicare. A partire da questa considerazione, avviare una discussione generale sembra rispondere a una duplice necessità: predisporre una qualche disponibilità al cambiamento da un lato, dall'altro favorire una certa forma di comprensione reciproca intorno alle difficoltà, ai problemi, alle soluzioni prospettabili. Insomma: un comune sentire (se non un comune pensare) intorno alla scuola. La discussione collettiva, capace di predisporre socialmente al cambiamento, non deve avvenire sui modelli scolastici, con il rischio di attivare per lo più adesioni, esclusioni o resistenze sulla base di criteri di appartenenza; essa dovrebbe riguardare piuttosto la enucleazione e una progressiva definizione dei problemi da affrontare, le priorità più avvertite, primi abbozzi di ipotesi per risolverli, lasciando sullo sfondo gli aspetti ordinamentali, la cui competenza è, tra l'altro, istituzionalmente affidata al Parlamento.
In questo modo si potrebbe parlare dei "contenuti", rilevando la loro percezione da parte di genitori, studenti, insegnanti, dirigenti, stimolando pareri e riflessioni intorno alle questioni considerate come più rilevanti (ad esempio: il problema degli esiti formativi, la padronanza delle competenze, il quadro dei rapporti tra domanda e offerta di formazione, tra genitori e insegnanti, la funzione di educazione e non solo di istruzione della scuola, diritti di cittadinanza oltre a competizione economica, ecc).
Questo potrebbe rappresentare l'avvio di un discorso comune, capace di attivare una maggiore sensibilità sociale nei confronti della scuola e dell'educazione. Dove comune non significa "condiviso", ma intorno a comuni problemi. L'assenza di un generale conversare sulla scuola si traduce in debolezza, una debolezza che si paga inevitabilmente con una caduta di aspettative nei confronti della scuola, e quindi con una diminuzione del suo ruolo sociale.

La seconda via, complementare alla prima, dovrebbe produrre e rendere disponibili "conoscenze giustificate", in grado di legittimare i cambiamenti che si propongono, anche allo scopo di trasformare l'interesse per la scuola in attenzione consapevole e partecipata. A tal fine occorre, a mio parere, istituire un "osservatorio permanente", un "centro di ricerca" sulla scuola, in grado di costruire un repertorio di conoscenze (attraverso l'analisi e la valutazione di esperienze formative, pratiche didattiche, risultati) da cui pescare per offrire un ancoraggio pedagogicamente sperimentato alle scelte politiche. Provo a segnalare, come esempi, tre ambiti di indagine, che costituiscono anche tre settori di intervento per qualsiasi decisione politica. Sul piano curricolare: per riformare l'insegnamento, dice Morin, occorre riformare i saperi; ma questo forse non è sufficiente. Cosa succede, infatti, dei saperi, una volta entrati in classe? Ciò che serve è seguire le trasformazioni dei saperi in "oggetti di insegnamento", perché è con questi che entrano in rapporto i ragazzi. Allora: qual è il rapporto tra oggetti di insegnamento ed esiti scolastici? Sul piano della valutazione del sistema, cioè dell'efficacia delle scuole: i risultati degli alunni nelle prove standardizzate esprimono, nel tempo, il miglioramento o il peggioramento degli apprendimenti testati, ma nulla dicono riguardo al come si produca miglioramento o peggioramento delle prestazioni; è solo correlando i risultati dei test con le caratteristiche delle scuole e i processi di insegnamento attivati che possiamo comprendere come i cambiamenti si siano verificati, e quindi favorire interventi mirati. Sul piano dei modelli scolastici: quale rapporto riusciamo a istituire tra tempo scuola, modelli organizzativi ed esiti? quali esperienze sembrano favorire maggiormente l'integrazione sociale e culturale? e l'eccellenza dei risultati? quali aspetti dell'organizzazione e della didattica, insomma, sembrano più significativamente correlabili ad esiti di integrazione e di eccellenza?

Sul piano del merito, vorrei segnalare alcuni ambiti di riflessione.
L'unitarietà della scuola di base. Se la discontinuità e la segmentazione producono dispersione (come sembra documentato da alcune ricerche: abbandonano e/o vengono bocciati molti più allievi nei primi che negli ultimi anni dei diversi ordini e gradi scolastici, segno di una difficoltà non superata a familiarizzare con i nuovi contesti), occorre riaffrontare il problema dell'unitarietà della formazione di base. Che si persegua l'ipotesi di massima (modello Berlinguer), o una di minima, certo va superata l'ipotesi "zero" della riforma vigente. Occorre comunque, almeno in una prima fase, sostenere l'estensione degli Istituti Comprensivi insieme ad un avvio/supporto a esperienze di reciprocità tra scuole, in grado di avvicinare pratiche scolastiche derivanti da culture e storie professionali tanto diverse: per esempio prevedendo la formazione di laboratori comunemente progettati e realizzati intorno a contenuti forti (le scritture, i testi, ecc) negli anni di passaggio e l'utilizzo di insegnanti di un ordine di scuola anche negli altri.

Il curricolo. Luogo di sviluppo delle competenze (come apprendimenti significativi, i soli a "durare" nel tempo), in un contesto di incontro di prospettive culturali e cognitive diverse, per formare l'uomo e il cittadino: in questo quadro il riferimento alla Costituzione va riaffermato come prospettiva che offre una visione democratica al conoscere e all'agire (in ciò contrastando l'attuale prospettiva che relega la Costituzione a pura appendice lessicale). Curricolo di esperienza (occasioni di incontro con "altro", "altri"), di conversazione (tra prospettive diverse), di riflessione (come scoperta e consapevolezza dei limiti delle diverse prospettive): perché il tecnico non soppianti il cittadino, ma anzi quest' ultimo "comprenda" il primo. Sfoltimento dell'enciclopedia, a vantaggio di conoscenze ed esperienze cognitivamente critiche (capaci di mettere alla prova saperi e atteggiamenti consueti, personali e collettivi) e culturalmente emblematiche, secondo una prospettiva a lungo termine (tra scuola di base e superiore). Un curricolo che preveda tempi per fare guidati, tempi per fare insieme, tempi per fare da soli: uno spazio per l'autonomia (anche come spazio per una quota di opzionalità del curricolo) diviene anche il segno dell'acquisizione, da parte dei ragazzi, della capacità di "stare presso di sé", segno di maturazione di un'identità non isolata.
Ciò conduce ad un superamento dell' impostazione pedagogica che accompagna l'attuale riforma, un'impostazione che del resto neppure i propugnatori sono finora riusciti a leggere in modo coerente, credibile e praticabile per le scuole. Insomma, si tratta di respingere la domanda da cui sembrano essere partiti gli attuali legislatori (E' meglio garantire una base comune uguale per tutti oppurevalorizzare le differenze/intelligenze individuali?) per riproporre quell'altro interrogativo: "come fare per garantire una base comune uguale per tutti e insieme valorizzare le differenze/intelligenze individuali". Si tratta cioè di sostenere con argomenti pertinenti un percorso formativo unitario che non releghi la scuola a un ruolo sussidiario rispetto al mercato della formazione, cui ciascuno accede non solo in base a quel che vorrebbe acquistare ma soprattutto, come sempre succede quando si tratta di acquistare qualcosa, in base a quel che può.

La cultura professionale degli insegnanti. Se consideriamo lo sviluppo dipendente dalla partecipazione a forme di vita e culture, più che da dotazioni individuali, la cultura professionale dei docenti dovrebbe arricchirsi di saperi più contestuali, quelli che favoriscono la predisposizione di "contesti di apprendimento" (così velocemente liquidati dalle Indicazioni Nazionali), dotandosi di strumenti (l'osservazione, l'ascolto, l'esplorazione, la negoziazione) che sono al tempo stesso strumenti della didattica e della ricerca (si tratta, tra l'altro, di una legittimazione culturale e pedagogica non secondaria alla collegialità). Se come da più parti sostenuto - si può stabilire una correlazione tra l' aumento delle conoscenze degli insegnanti riguardo i processi di apprendimento degli allievi e il miglioramento delle prestazioni degli stessi, occorre sostenere la ricerca come costitutiva delle buone pratiche didattiche, anche al fine di un loro trasferimento. Credo che al riguardo l'esperienza dei corsi di laurea di Scienze della Formazione Primaria nel costante collegamento tra scuola e università mutuato dal tirocinio - andrebbe indagata, approfondita e se mai diffusa, non liquidata.

L'autonomia scolastica. Quale visione dell'autonomia, allora? Da un lato, certamente, per gli insegnanti essa si presenta come un'occasione per mettere a fuoco i processi che avvengono a scuola, dall'altra può rappresentare un'opportunità per riconoscere e valorizzare le esperienze più significative, anche al fine di una loro generalizzazione. Occorre però superare la concezione di autonomia, attualmente praticata dall'Amministrazione, come invito a fare da sé laddove l'Amministrazione non intende, non può o non sa arrivare, come spinta ad arrangiarsi; l'autonomia è una forma di "consegna" alle scuole, e la consegna richiede sempre, da parte di chi consegna, una certa cura, una certa attenzione, altrimenti è abbandono.
Infine un problema, un interrogativo che credo non da poco: quale modello di governo del servizio scolastico è ipotizzabile in un'epoca che alla "partecipazione collegiale dei genitori" vede sostituirsi il "diritto di scelta" da parte della famiglia come esercizio di un diritto individuale?

Agostino Frigerio