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ScuolaOggi: Iscritti a cosa?

Alba Sasso

05/03/2009
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ScuolaOggi

Nella introduzione che accompagna il disegno di legge di Valentina Aprea ( Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti – 12 Maggio 2008), vi è un passaggio di estremo interesse per apprezzare la “filosofia” che ispira l’impianto dell’articolato vero e proprio della proposta.
Riguarda una “idea” del ruolo e della funzione dello Stato rispetto all’istruzione e formazione che rappresenta un diritto di cittadinanza, costituzionalmente definito e esigibile in termini di servizio pubblico erogato ai cittadini.
Si tratta di un “passaggio” della relazione nel quale dottamente si cita uno slogan Blair che prevede il passaggi del ruolo dello Stato “from provider to commisioner”.
Cioè in sostanza da uno Stato in funzione di “regolatore” della produzione di servizi pubblici ad uno Stato “committente” o se si vuole “compratore” dei medesimi servizi, si intende “per conto” dei loro fruitori, e cioè dei cittadini stessi; nel caso dell’istruzione delle famiglie, alle quali spetta la “libera scelta” che riguarda la fruizione concreta del servizio di istruzione.
Nulla da eccepire, nel merito: si tratta di un “modello” di organizzazione delle funzioni del welfare che sposta l’attenzione dal tradizionale welfare state a un (si vorrebbe più moderno, efficiente e “libero”) welfare system.
Materia di confronto politico, culturale, istituzionale, tra concezioni del significato di “pubblico”, di modo di concepire il sistema dei “diritti di cittadinanza” e dunque di conseguenza del ruolo e delle funzioni dello Stato nell’erogazione dei servizi ad essi corrispondenti.
Materia anche di confronto “tecnico” sui criteri di efficacia, efficienza, economicità nella organizzazione ed erogazione di tali servizi pubblici e sui possibili modelli che garantiscano al meglio l’uso delle risorse pubbliche.
Confronti che hanno le loro sedi e modalità di espressione, e che non sono oggetto di questa nota. Ad essi si rimanda, qui semplicemente ricordando che sarebbe utile (a tutti) tenere effettivamente il campo di una discussione di grande livello e di portata storica (il ruolo dello Stato nella organizzazione dei servizi pubblici alla cittadinanza è in discussone dalla conclamata crisi dei modelli storici del welfare state e della crisi fiscale dello Stato), evitando cortocircuiti di pensiero, come quelli che “gridano” alla “privatizzazione” esattamente speculari a quelli che “predicano” l’intrinseca inefficienza della dimensione pubblica.
Qui voglio solo mettere in luce un dettaglio (e si sa che spesso i dettagli ospitano il maligno…) dal quale seguono alcuni corollari di valutazione del disegno di legge citato e dei provvedimenti che esso prevede di porre in opera.
Valentina Aprea compie, attraverso la sua dotta citazione di Blair (non si dimentichi che la “patria” originaria, storica, del moderno welfare state è proprio la Gran Bretagna con il programma di Lord Beveridge: dunque gli inglesi se ne intendono..) uno “scarto” vertiginoso rispetto alla tradizione storica nazionale.
Quest’ultima è infatti caratterizzata dalla funzione dello Stato come “produttore” dei servizi. Stato producer, se vogliamo mantenere il riferimento anglosassone.
La transizione che si vorrebbe promuovere è dunque più radicale e completa: from producer, through provider, to commisioner avrebbe dovuto affermare un “blair” nostrano.
Dagli anni ’90 del secolo scorso, è in atto un complesso e contraddittorio tentativo di trasformazione della Pubblica Amministrazione italiana from producer to provider.
Un processo contraddittorio perchè investe un “apparato” di grandi dimensioni, stratificato di interessi e culture, alimentato da interpretazioni giuridiche e professionali, il cui cambiamento non è (non solo) tecnico. Investe almeno un paio di generazioni di interpreti, per essere compiuto, posto che le resistenze e reazioni che necessariamente lo accompagnano vengano superate “tenendo la barra” del timone con sicurezza della marcia intrapresa e della direzione da seguire.
Un processo complesso perché si intreccia e stratifica, in un legame circolare di causa ed effetto, con aspetti di riforma istituzionale e costituzionale.
Se volessimo usare per brevità uno slogan come riferimento basti pensare alla stagione politica delle “bassanini” intrecciata a quella della riforma del Titolo V della Costituzione. Per stare al mondo della scuola alla Autonomia delle Istituzioni scolastiche.
La filosofia comune è proprio quella di alleggerire gli apparati dello Stato dalle funzioni di “produzione” diretta del servizio alla cittadinanza, a partire dalla “detenzione” delle risorse esenziali a tale produzione: il personale, le risorse finanziarie, le specifiche organizzative.
In parallelo, invece, l’ipotesi politica di trasformarne e di qualificarne l’attività in termini di “regolazione, controllo, monitoraggio, funzioni di service” ad una “produzione” decentrata, deconcentrata, devoluta (i termini non sono equivalenti: corrispondono a diverse soluzioni specifiche previste sia nella riforma della Pubblica Amministrazione che nel dispositivo del Titolo V, e specifiche per diverse materie: l’autonomia scolastica per esempio è una di queste in campo scolastico; alcune privatizzazioni di “aziende pubbliche” sono altri esempi del processo in altri campi).
From producer to provider è un processo storico di portata epocale per il nostro Paese e le sue tradizioni amministrative.
Lo Stato “rinuncia” a detenere in proprio i fattori della produzione (risorse, lavoro, modalità di organizzazione), potenziando l’autonomia produttiva di altri soggetti pubblici e/o trasferendo poteri normativi. Consolida invece le funzioni di controllo e regolazione.
A presidio di tale disegno sono poste due condizioni costituzionali (titolo V): lo Stato si riserva il potere normativo relativo ai “principi generali” che interpretano i diritti di cittadinanza, e la podestà di definire le “prestazioni essenziali” che corrispondono a quei diritti e che si impegna a garantire in modo eguale a tutti i cittadini, quali che siano i soggetti erogatori.
La eventuale non corrispondenza sia nei “principi generali” sia nei “livelli essenziali di prestazione” promuove “potere sostitutivo” nei confronti di questi ultimi. (Così recita il Titolo V Cost.)
L’Aprea sembra andare oltre e scavalcare quel processo, operando un ulteriore scarto di “modello” e, non a caso, rifacendosi ad un modello anglosassone.
Lo Stato comissioner in buona sostanza e riferito al servizio di istruzione funziona (-erebbe) così
1. Lo Stato eroga alle istituzioni scolastiche un finanziamento pubblico di tipo “capitario” (in sostanza per studente iscritto)
2. Le scuole hanno padronanza totale dei fattori di produzione, dal lavoro (i docenti assunti direttamente) ai modelli organizzativi, avendo solo vincoli relativi a obiettivi “terminali” dell’istruzione (per altro, nella tradizione anglo sassone, verificati non tanto in uscita, quanto in entrata nei livelli successivi di formazione).
3. La “garanzia” pubblica è fondata su un rigoroso e autorevole sistema di valutazione (OFSTED) che opera come un vero e proprio sistema di rating, che “valida” le scuole stesse e dunque orienta decisamente le scelte dei cittadini. Le scuole “migliori” sono premiate dall’utenza e non solo dai finanziamenti pubblici.
Insomma una variante “radicale” di un modello di quasi-mercato.
Funziona? Non mi interessa qui sviluppare tale argomento. Semplicemente ricordo che la pertinenza di tale modello riposa su due condizioni specifiche della società inglese:
a. E’ compatibile con una formazione sociale nella quale il rapporto tra Stato e “società civile” è animato da un “orientamento alla società civile” coniugato ad una “pedagogia stabilizzatrice” delle funzioni pubbliche.
Per le medesime ragioni l’Inghilterra non ha una Costituzione formale e non ha un “diritto amministrativo” (c’è solo la common law); ma nessuno può affermare che non sia una democrazia, non sia uno Stato, e non vi sia nella società inglese il “senso dello Stato” e del valore pubblico. Semplicemente tutti questi valori riposano su altre fondamenta della formazione storico-sociale.
b. Alimenta un sistema di istruzione nel quale il contributo diretto della spesa delle famiglie è particolarmente elevato.
Basti il dato che in Gran Bretagna tale contributo equivale al 13,4% del totale della spesa per istruzione in quel Paese, mentre in Italia tale contributo è del 3,9%. (dati da “Education at Glance”, OCSE, 2006).
(Sia detto per inciso: quando si discetta di spesa per l’istruzione occorrerebbe sempre bilanciare spesa pubblica e spesa diretta dei cittadini, prima di affermare che un sistema scolastico sia più o meno costoso di un altro..).
La tradizione storica del nostro Paese (usando le medesime categorie tassonomiche precedenti) potrebbe esse descritta nei termini di un orientamento “statalista” nel rapporto tra Stato e Società Civile, coniugato con la medesima “pedagogia stabilizzatrice” attribuita allo Stato stesso (societarismo versus statalismo nella medesima cornice stabilizzatrice del significato del welfare).
Non è certo impossibile cambiare di modello: ma la strategia va commisurata alla sua portata storica, altrimenti non solo fallisce, ma semplicemente cambia significato e risultati.
Qui basti concludere che la citazione della Aprea nella introduzione al suo disegno di legge sembra sorvolare, pur citandone i presidii importanti (dalla “bassanini” al Titolo V) su quel processo complesso di trasformazione dello Stato da producer a provider che ha caratterizzato l’ultimo ventennio di impegno politico e istituzionale, proponendo un ulteriore scarto.
Una dimenticanza? Una superficialità espositiva in una relazione introduttiva necessariamente stringata? Forse c’è dell’altro a considerare le contraddizioni che ne seguono e che punteggiano l’articolato di legge.
Ne cito solo tre importanti, sulle quali si è variamente acceso il dibattito politico attorno allo stesso disegno di legge: la trasformazione delle scuole in Fondazioni, l’assetto e stato giuridico dei docenti, l’attribuzione dei docenti alle scuole autonome.
1. La scelta che viene compiuta nel disegno di legge, anche nel delineare le prospettive di realizzazione dei dispositivi del Titolo V, è quella di mantenere il personale della scuola alle dipendenze dello Stato.
Alle Regioni si riconosce un compito “funzionale” (qualunque cosa ciò voglia significare) ma il personale è confermato come “risorsa detenuta dallo Stato” che ne ha la “padronanza” degli istituti del rapporto di lavoro (con seri limiti alla stessa dimensione contrattuale) e dello “stato giuridico”.
Si cita a rinforzo un parere della Suprema Corte che riconosce allo Stato questa titolarità: ma appunto la Corte non poteva esprimersi altrimenti a partire dall’assunto che il personale dipende dallo Stato. Il problema è decidere a chi tocca la titolarità di “datore dei lavoro”. In attesa del “federalismo” che dovrebbe decidere in merito.
Il personale della Sanità ha un contratto nazionale, uno “stato giuridico” nazionale, e una titolarità del rapporto di lavoro regionale…Confondere i livelli non fa bene alla chiarezza delle scelte.
Il profilo di docente che ne emerge è quello tradizionale di “funzionario” statale qualificato su base professionale, ma legato all’amministrazione da una definizione “formale” (una “investitura”) del suo ruolo, che riconduce “a norma” ( e non a parametro organizzativo) anche gli spazi di esercizio della autonomia professionale.
La contrattualità del rapporto di lavoro si riduce così in buona sostanza al solo trattamento economico.
La stessa “libertà di insegnamento”, posta come valore essenziale, è nel testo di legge fortemente vincolata da tale configurazione del ruolo del docente.
Nel disegno di Legge in questione le affermazioni in proposito si fanno stringenti. ”La libertà di insegnamento va tutelata con norme di legge riguardanti non solo lo stato giuridico in senso stretto”, ma con “regole precise con riferimento ai vari aspetti che incidono su di esse come, per esempio, il modo con cui si identificano le attività del docente, l’eventuale tipologia della funzione docente, i rapporti fra il docente e la scuola, i rapporti tra la scuola e gli altri pubblici poteri, le procedure di assunzione, la stabilità del rapporto, i principi su eventuali carriere.”
Dunque con un dettaglio della articolazione della libertà di insegnamento e delle condizioni del suo esercizio che va ben al di là della nettezza dell’affermazione costituzionale e delle sue ragioni profonde.
L’affermazione di principio è inequivocabile “tutti gli ambiti che integrano la disciplina della libertà di insegnamento devono ritenersi sottratti al contratto collettivo, risultando non disponibili da parte dei diretti interessati.”
Dunque la normazione statale non dovrebbe limitarsi a dare corso a “principi e dispositivi di carattere generale” capaci di tradurre operativamente la nettezza e stringatezza del dettato costituzionale, ma dovrebbe entrare nel merito anche della dimensione organizzativa del lavoro docente, e addirittura delle sue forme di rappresentanza sindacale.
Significativo, sotto tal profilo, lo scarto semantico con il quale si parla di “livelli essenziali di prestazione”: essi sono riferiti alla figura professionale (si verifichi nel testo).
I Livelli Essenziali di Prestazione nello stesso dettato costituzionale ( determinazione che spetta allo Stato) si riferiscono al servizio garantito al diritto di cittadinanza, non alla “prestazioni lavorative” dei singoli.
Stabiliti i livelli esenziali del servizio, l’operatività degli addetti ne discende come variabile dipendente e la sua definizione è mediata, appunto, dalla dimensione collettiva dell’organizzazione del servizio stesso. Qui si capovolge la logica in contraddizione con il tentativo medesimo di “riscrivere le regole e gli organismi” delle istituzioni scolastiche autonome (autonomia organizzativa, finanziaria, di ricerca e sviluppo).
2. Il dispositivo che prevede la possibilità delle istituzioni scolastiche di trasformarsi in “fondazioni” contiene diverse contraddizioni.
i. Sotto il profilo giuridico una fondazione si costituisce attorno ad un “capitale”, anche se è vero che in alcune leggi regionali le fondazioni di carattere locale non sono vincolate ad un “capitale minimo” necessario per costituirsi.
Nel caso di una scuola quale è il “capitale” di riferimento?
ii. Le Fondazioni hanno organi propri: la dizione del testo che prevede la partecipazione di partners agli organi di governo della scuola, attraverso la Fondazione appare impropria
iii. Le fondazioni hanno vincoli di bilancio propri del Codice Civile, ma soprattutto sono tenute al “Bilancio di missione” che è una forma di rendicontazione sociale.
Nel testo si prevede che la fondazione così costituita abbia l’obbligo di rendere conto “alle amministrazioni pubbliche competenti (?) delle scelte organizzative e didattiche”
Inoltre si prevede che la possibilità di trasformarsi in fondazione sia “su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione”
iv. La contraddizione più rilevante dell’art. 2 consiste nel fatto che esso appare aprire positivamente ad un rapporto tra autonomia scolastica e terzo settore (in coerenza con quanto in premessa).
Ma chiude drasticamente tale possibilità sia attraverso il filtro previsto della proposta del Ministero, sia nelle indicazioni, per altro confuse, delle modalità di rendicontazione.
Altra misura e di diverso significato sarebbe quella di prevedere che una o più istituzioni scolastiche possano “dar vita” a soggetti del terzo settore (meglio ONLUS che Fondazioni).
In tale modo si potenzia l’autonomia scolastica, sia attraverso i vantaggi gestionali (il codice civile) sia nelle forme di rendicontazione (il Bilancio Sociale) sia nel recupero di partners e interlocutori che apportano risorse sia economiche che professionali.
In tale caso infine è l’istituzione scolastica che partecipa agli organi di governo e gestione del soggetto del “terzo settore” e non il reciproco.
Tale possibilità di “dare vita a..” e non “trasformarsi in...” richiederebbe un intervento normativo minimo, essendo tale possibilità nei fatti già operativa (e già messa in atto in diverse esperienze).
3. Infine la questione della possibilità delle scuole di “scegliersi” i docenti che più ha sollevato preoccupazioni e grida di “privatizzazione” da un lato e approvazione entusiasta di certe organizzazioni di Dirigenti Scolastici (finalmente ci scegliamo gli insegnanti…).
In realtà il provvedimento prevede che, alla fine di un percorso formativo del quale ovviamente si può e deve discutere, si costituisce un Albo professionale che semplicemente testimonia l’abilitazione all’insegnamento.
Ad esso si accede comunque per concorso, che viene bandito dagli stessi Istituti scolastici.
In altre parole l’assunzione dei docenti segue comunque le procedure concorsuali che vengono “disseminate”.
Una metodologia di assunzione tradizionale e coerente con la configurazione giuridica di “funzionario dello Stato”, messa in capo alle singole scuole.
Forse vale la pena ricordare che fino agli anni ’70 non dissimile era la situazione degli Istituti professionali: assumevano in proprio il personale che poi veniva trasferito nei ruoli dello Stato….
A parte la realizzabilità concreta del modello (si pensi solo alle dimensioni e alla dispersione del contenzioso relativo) esso appare totalmente disallineato con la filosofia dello Stato commissioner enunciata in premessa.
Qui lo Stato continua a detenere, anzi consolida per via delle proposte di stato giuridico, la padronanza sul personale. Ad essa si ricongiunge quella sulle risorse finanziarie come previsto da altri articoli.
Le contraddizioni tra proposte dell’articolato della legge e premessa di “filosofia” sono evidenti, e provengono tutte da una lettura “deformata” proprio dei processi, che abbiamo indicato in precedenza, di riforma dello Stato.
Non di “privatizzazione” dunque si tratta, o almeno non in senso stretto.
In realtà siamo di fronte ad una miscela di “statalismo”, che mantiene in sostanza la forza baricentrica dello Stato e del Ministero dell’Istruzione, e di “privatismo” nel quale la padronanza statale delle risorse (finanziarie ed umane) viene risagomata “in utilità” di interessi privati, o meglio individuali.
E il primato della “società civile”? E la “sussidiarietà”? E il “federalismo”?
C’è solo da aggiungere che, forse senza intenzioni di chi propone, la miscela di “statalismo” e di “privatismo” è la medesima che abbiamo conosciuto in altre occasioni di cosiddette “privatizzazioni” in questi anni e che, sempre in questi anni, si è opposta e ha finora sconfitto ogni sensato tentativo di “liberalizzazione”.