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ScuolaOggi: Quando Citati vuol tornare agli anni Venti

Pietro Citati, classe 1930, che affronta il tema dell’emergenza formativa proponendo l’azzeramento degli ultimi venti anni e il ritorno tout court al sistema gentiliano, datato 1923-24: la scuola che ha fatto lui.

22/05/2008
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ScuolaOggi

di Marco Campione e Aldo Tropea

Repubblica ha in prima pagina un intervento di quello che ormai possiamo considerare, insieme a Mario Pirani, l’editorialista di riferimento di quel giornale sui temi dell’istruzione. Ci riferiamo al critico letterario e scrittore Pietro Citati, classe 1930, che affronta il tema dell’emergenza formativa proponendo l’azzeramento degli ultimi venti anni e il ritorno tout court al sistema gentiliano, datato 1923-24: la scuola che ha fatto lui.
Citati sembra aver dimenticato che quella scuola era preclusa ai più e laureava percentuali bassissime della popolazione; bisognerebbe ricordargli anche quanto fosse profondamente classista nel suo impianto (voluto da Gentile e considerata da Mussolini la “più fascista delle riforme”) e quanta scarsa considerazione avesse della cultura scientifica.
Per la verità Citati sembra riconoscere che quell’edificio non era poi così forte ed autorevole.
“Nel dopoguerra tutti i Ministri della Pubblica Istruzione sono stati mediocri. Ma un tempo i bigi e saggi ministri democristiani non osavano nemmeno sfiorare il vecchio edificio scolastico: sapevano che era pieno di crepe; e che un solo colpo di piccone avrebbe rischiato di distruggere l’Università, il liceo, le medie, le elementari…”
Tralasciamo la nostalgia per i “bigi e saggi democristiani” e domandiamoci: ma che idea hanno certi intellettuali del Ministro ideale? È forse quello che di fronte ad un edificio “pieno di crepe” lascia tutto com’è per paura di far crollare tutto?
Purtroppo, ci dice il Nostro, ad un certo momento i ministri “presero coraggio [...] e cominciarono le allegre catastrofi: quella della scuola di base con il moltiplicarsi dei maestri, quella dell’esame di riparazione, l’invenzione delle cattedre grottesche [...]”
A dire il vero il maestro unico è stato abolito da Brocca (democristiano) e gli esami di riparazione da D’Onofrio (democristiano); mentre l’invenzione delle “cattedre grottesche” è figlia dell’esigenza dei baroni universitari (bipartisan) di sopravvivere alla riforma da loro allora (e da Citati oggi) avversata.
Ma il peggio è arrivato con Luigi Berlinguer. Egli è stato il demolitore della scuola centralizzata, inventando una bizzarra realtà, ignota a tutto il mondo civile, chiamata autonomia. È stato il distruttore dell’Università fondata sulla gloriosa laurea quadriennale, riservata all’8% della popolazione. È stato il demoniaco inventore della scuola biennale di specializzazione post-laurea per gli insegnanti: ci si specializza per fare l’avvocato, per fare il medico, per fare l’ingegnere, per fare il professore universitario, mica per insegnare “alle medie o al liceo”.
Letizia Moratti, poi, avrebbe completato l’opera consolidando la perversa istituzione delle lauree triennali. Non è chiaro se – come per i sodali Pirani e Mastrocola – si sia salvato Fioroni, ma non importa.
Sia chiaro: non stiamo sostenendo che il sistema scolastico italiano vada bene, ci ribelliamo però all’idea che per farlo andare meglio si debba tornare alla maestrina dalla penna rossa.
L’emergenza formativa è evidente e peraltro è ampiamente documentata dalle indagini internazionali cui la scuola italiana si era sempre sottratta fino alla gestione di Luigi Berlinguer, che fu anche il creatore dell’istituto per la valutazione del servizio e –giova ricordarlo in un periodo in cui si parla tanto di meritocrazia nel pubblico impiego– ci rimise il posto giusto per aver proposto una forma, certo discutibile, di valutazione degli insegnanti.
Ciò che più impressiona è un’analisi che, guardando la realtà con la testa rivolta all’indietro, rimuove i nodi veri: il ritardo con cui la ricerca pedagogica e didattica si misura con la crisi dei linguaggi tradizionali; la separatezza anacronistica tra istruzione e formazione professionale; il persistere di tassi inaccettabili di insuccesso scolastico (in Lombardia ad esempio, il 20% non arriva nemmeno alla qualifica secondo le stime più ottimistiche); la questione della formazione tecnica superiore non accademica, il cui mancato decollo ha responsabilità enormi negli aspetti più problematici delle lauree triennali; il nodo della prima formazione, della formazione in servizio, del reclutamento e della valutazione degli insegnanti, che andrebbe affrontato riformando lo stato giuridico. E, prima di tutto, la crisi educativa delle famiglie e del loro rapporto con la scuola e la società in generale.
Sarebbe necessario che la grande stampa e le intellettualità italiane si misurassero su questi temi, piuttosto che su attacchi che sembrano davvero insensati. Certo, l’intervento di Citati diventa più comprensibile se si considera che solo pochi giorni fa sempre su Repubblica è comparso un lungo e dettagliato articolo intitolato “Sorpresa: la laurea breve funziona”. Un articolo ricco di dati che dimostra come molti giudizi di questi anni siano quanto meno scarsamente suffragati dall’evidenza empirica.
Sarà la pessima influenza della cultura scientifica, ma ci piacerebbe si desse più peso ai dati, piuttosto che ai legittimi pareri di un editorialista che apprezziamo come scrittore, ma che appare impegnato più a difendere se stesso dalla loro evidenza che a contribuire in modo originale ad un dibattito fondamentale per il futuro del nostro paese.
Marco Campione e Aldo Tropea