Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Se l'età vince sul merito il Paese non ha speranza

Se l'età vince sul merito il Paese non ha speranza

Ad oggi sembra che le motivazioni a favore del cambiamento siano prevalentemente di tipo generazionale, «bisogna fare spazio ai giovani», e quelle contro il cambiamento siano di tipo finanziario o corporativo, «non ci sono i soldi, oppure i diritti acquisiti non si toccano». Entrambe le motivazioni non sono convincenti.

06/08/2014
Decrease text size Increase text size
Il Mattino

Ennio Cascetta

Nei giorni scorsi ho seguito da Boston le vicende della riforma della Pubblica amministrazione che sta, a mio avviso giustamente, infiammando il dibattito pubblico in queste settimane. Ho provato a spiegare la riforma, o meglio la versione di qualche giorno fa con le soglie di 68 anni in uscita per professori universitari e medici, ai miei colleghi del Massachussets Institute of Technology. Non mi è stato facile spiegare a persone, che in alcuni casi avevano superato quella età, che in Italia un professore poteva non scrivere un rigo per decenni e rimanere in organico senza problemi o, viceversa, poteva essere un premio Nobel, continuare a produrre, a seguire studenti di dottorato, a far arrivare importanti finanziamenti di ricerca ed essere poi costretto, per legge, lasciare l'università superata una certa età. Da loro non funziona così, ma di più, in una società sostanzialmente basata sulla valutazione e sul merito, il dibattito italiano risultava eticamente incomprensibile. Il discorso non può e non deve fermarsi alla pur importantissima materia dei docenti universitari. Si tratta di un tema più ampio e fondamentale che riguarda tutta la Pubblica amministrazione, la classe dirigente di una buona parte del Paese, quella da cui, ci piaccia o meno, dipende la competitività ma anche il benessere degli italiani. Riguarda cioè i meccanismi di selezione delle élite pubbliche, cioé di quella parte delle élite che non sono affidate al mercato e alla competizione internazionale. In un recente e interessante libro dal titolo quanto mai significativo, «Perché le nazioni falliscono: le origini del potere, della prosperità e della povertà», Daron Acemoglu del Mit e James Robinson di Harvard propongono la tesi secondo cui il destino e il successo di un Paese dipendano dal grado di inclusività o di estrattività di una società e questo dipende, a sua volta, dai meccanismi di incentivazione e disincentivazione che quella società mette in campo. In Italia questi meccanismi si sono inceppati da anni, tanto che nessuno mette in discussione la necessità di una riforma sostanziale, di un profondo rinnovamento di uomini e di mentalità nella Pubblica amministrazione. Ma proprio per questo è importantissimo che la riforma dia i segnali giusti. Ad oggi sembra che le motivazioni a favore del cambiamento siano prevalentemente di tipo generazionale, «bisogna fare spazio ai giovani», e quelle contro il cambiamento siano di tipo finanziario o corporativo, «non ci sono i soldi, oppure i diritti acquisiti non si toccano». Entrambe le motivazioni non sono convincenti. In realtà si sta perdendo l'occasione di mettere al centro del dibattito politico la questione dei meccanismi di formazione e selezione della classe dirigente. Questo tema non viene ancora percepito come una delle priorità della politica. Ma se giovani impreparati sostituiscono gli anziani, preparati o meno che siano, ciò non ci porta lontano. E a capire meglio e prima questo sono gli stessi giovani. Non è solo per la mancanza di occasioni di impiego pubblico che tanti di loro lasciano il nostro Paese, ma perché percepiscono, magari in modo confuso, che l'impegno e la capacità non sono da noi garanzia di affermazione personale e professionale. Ovviamente la cultura della valutazione va costruita e non si crea per legge. Occorrono meccanismi seri di confronto e la fiducia, oggi spesso assente, che il processo sia imparziale. Ma tutto ciò non è affatto impossibile, magari coinvolgendo esperti internazionali, come avviene in tanti Paesi. Qualcosa è stato è stato avviato in Italia con la pur contestata valutazione dei docenti universitari, messa in piedi in poco più di un anno dal ministero dell'Università. Quella riforma, con tutti i suoi limiti, sta cambiando rapidamente mentalità e comportamenti. E allora si investa una buona volta in formazione, magari sull'esempio delle Scuole Superiori francesi, e si investa in meccanismi seri di valutazione. Aiuterebbe l'economia e rilancerebbe l'etica pubblica, dando speranza e direzione a un Paese che ha molto bisogno di entrambe.