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Se le nostre università si convertono all'inglese

«Ci apriamo al mondo». «No, è un errore culturale»

13/04/2012
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Corriere della sera

Da una parte c'è il ministro-ingegnere Francesco Profumo: «La chiave per competere con le migliori università del mondo è l'internazionalizzazione». Dall'altra gli si contrappone il linguista Luca Serianni: «Internazionalizzazione sì ma senza rinunciare alla nostra lingua madre». Dietro di loro, seguendo una contrapposizione più o meno netta, ecco schierati uomini di scienza e umanisti divisi questa volta dalla rivoluzione che dal 2014 investirà il Politecnico di Milano: i corsi per gli studenti dell'ultimo biennio della laurea specialistica e dei dottorati saranno tenuti esclusivamente in inglese. Niente più «doppio binario», corsi in italiano (finora i due terzi) e in inglese (la parte restante). Ma solo nella «lingua tecnica base».
La strada era già tracciata da tempo. I corsi in inglese sono stati introdotti al Politecnico milanese negli anni, portando la percentuale degli studenti stranieri sul totale degli iscritti dall'1,9% del 2004 al 17,8 del 2011. Per sostenere la rivoluzione l'Ateneo investirà 3,2 milioni di euro, destinati soprattutto ad attirare docenti stranieri. Con un duplice obiettivo: «Offrire agli studenti italiani non solo più competenze scientifiche ma anche un'apertura culturale internazionale che li renda "spendibili" sul mercato del lavoro internazionale», spiega il rettore Giovanni Azzone. «Quindi attrarre studenti stranieri, un valore aggiunto per il nostro Paese. L'Italia ha una forte attrattiva culturale ma anche una barriera linguistica: insegnando in inglese richiameremo tutte quelle persone interessate alla cultura italiana». Perché «l'Italia può crescere solo se attrae intelligenze».
La via che porta all'internazionalizzazione è stata imboccata prima dalle università private: dalla Bocconi alla Luiss. Quindi da quelle pubbliche: da Torino (dove sono state tolte le tasse a chi segue corsi in inglese) a Roma (dove in inglese sono tenuti corsi anche a Medicina). Ma il Politecnico di Milano è il primo a bandire l'italiano in favore dell'inglese. «In questo modo si aumentano le competenze dei laureati italiani e si attraggono studenti anche dall'estero», ha dato la sua benedizione il ministro Profumo dichiarandosi «molto soddisfatto» della decisione dell'Ateneo milanese. Parole che riaprono il dibattito sulla lingua universitaria.
Il primo scontro-confronto è andato in scena sulle pagine del Corriere un mese fa. Da una parte, allora, il filosofo Tullio Gregory: «La retorica dell'inglese per tutti: imporlo non ci fa più moderni né più "produttivi". Danneggia cultura umanistica e scienza». Dall'altra proprio il rettore Giovanni Azzone: «L'inglese obbligatorio è un vantaggio per l'Italia». Ora, nel dibattito, interviene il linguista Luca Serianni per il quale un conto è offrire dei corsi in inglese e un altro è imporre la scelta anglofona. «È eccessivo e non solo per ragioni ideologiche — dice —. Se l'italiano rinuncia a una "provincia" come l'istruzione scientifica retrocede a vernacolo: un rischio per la lingua. Se gli studenti italiani (che eserciteranno per la maggior parte in Italia) rinunciano alla loro lingua madre, lingua irrinunciabile con cui ci affacciamo a tutti gli ambiti, regrediscono nel controllo delle strutture logico argomentative: un rischio, insomma, per la loro capacità di ragionare». Un po' quello che sostengono anche il linguista Tullio De Mauro («Scelta inaccettabile per un'università pubblica») parlando di «effetti negativi sull'intelligenza». E lo scrittore Sandro Veronesi: «Una follia tutta italiana, una scelta disperata. Attraverso la lingua si organizza il pensiero: va bene conoscere quello dominante, ma non si può tagliar fuori la lingua madre».
Mette in guardia il direttore scientifico dell'Istituto italiano di tecnologia Roberto Cingolani: «Nessuna gara tra lingue. Non si può contrapporre la nostra lingua madre, una delle più belle al mondo, all'inglese: è una lingua tecnica, indispensabile. La scelta del Politecnico, relegata in ambito scientifico e rivolta a persone adulte che parlano già un ottimo italiano, è una grande opportunità per l'istruzione tecnica, per i nostri ragazzi e per quelli che vengono da fuori». Concorda il presidente dell'Ordine degli architetti Amedeo Schiattarella: «Per i professionisti attivi abbiamo dovuto organizzare appositi corsi di inglese tecnico: la scelta è quasi obbligata». Ma Massimiliano Fuksas, che da Los Angeles si autodefinisce «architetto che lavora nel mondo», esce dallo schieramento: «Troppo radicali, o non facciamo nulla o troppo. Prima c'è la nostra lingua, poi possiamo impararne anche altre due o tre. Magari il cinese».
Alessandra Mangiarotti
 


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