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Se non cambiano le regole di reclutamento i giovani rischiano di essere ancora esclusi

Andrea Gavosto

26/08/2012
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La Stampa

Delle «azioni» per la crescita licenziate dal governo alcune riguardano la scuola. Di rilievo, in particolare, due misure: la formulazione di un regolamento per il sistema nazionale di valutazione in materia d’istruzione, che definisce criteri e modalità per misurare la qualità del servizio (in termini di apprendimenti, ma non solo di questi) e, laddove sia carente, per migliorarlo; la decisione di assumere in ruolo nei prossimi due anni alcune decine di migliaia di insegnanti, 12 mila dei quali attraverso un nuovo concorso.

Che il miglioramento della scuola sia fra le priorità che l’Italia si dà per riprendere a crescere è una notizia degna di nota e va accolta con estremo favore. Le due principali misure vanno in una direzione condivisibile: tuttavia, la loro efficacia potrà essere stabilita solo quando saranno chiariti alcuni aspetti importanti, che rimangono oscuri o rimandati a provvedimenti successivi.

Di un disegno complessivo del sistema di valutazione nazionale c’era bisogno da tempo: il governo ha quindi colmato un ritardo ultradecennale nei confronti dei paesi più avanzati. Per garantire la massima qualità dell’insegnamento, ogni scuola deve infatti sapere quali risultati ha raggiunto rispetto agli obiettivi che si è posta e confrontare i propri con i risultati degli altri. Il testo in discussione segue questi principi. Rimangono, però, perplessità sulla sequenza della fasi della valutazione - che richiederebbero riferimenti tecnici qui fuori luogo - e, in particolare, sul rapporto fra la valutazione «esterna», condotta da un team di ispettori ed esperti, e l’autovalutazione effettuata dalle scuole stesse secondo alcuni parametri definiti dal centro. Se quest’ultima è utile, è ovvio che la prima sia più incisiva: perciò riterremmo importante stabilire che tutte le scuole in un ragionevole arco di tempo (3/5 anni) siano soggette a una valutazione «terza». Se, invece, sarà soltanto l’autovalutazione a suggerire quali sono le situazioni critiche abbiamo dubbi che il sistema possa funzionare: quasi nessuno si dà, infatti, le insufficienze da solo.

Le famiglie da sempre si preoccupano molto di chi insegna ai propri figli. Giustamente: perché sanno che la qualità degli apprendimenti dipende dalla qualità dei docenti, come pure sanno che l’eccessivo turn over - dovuto all’elevato numero di precari - può mettere a repentaglio la continuità didattica. Il governo Monti, oltre a ratificare per quest’anno assunzioni già decise dal precedente governo, ha deciso di immettere in ruolo quasi 24 mila insegnanti nell’anno scolastico 2013-4: secondo le norme vigenti, metà arriveranno dalle graduatorie provinciali basate sull’anzianità di servizio; l’altra metà da un nuovo concorso pubblico (il primo dopo 13 anni), che prevede prove scritte e orali, inclusa una simulazione di lezione. Un concorso pubblico che valuti con rigore le competenze degli aspiranti docenti, garantendo ai meritevoli stabilità lavorativa, è un positivo segnale di ritorno alla normalità.

A dispetto delle affermazioni del ministero, non è, però, scontato che con questo concorso sarà possibile avviare l’indispensabile ringiovanimento del corpo docente italiano. Il concorso difficilmente potrà, infatti, discostarsi dalle regole attuali, che privilegiano titoli e anni di insegnamento. Se poi l’accesso dovesse essere limitato a chi ha già l’abilitazione, come è stato dichiarato, l’esclusione dei più giovani sarebbe praticamente totale, perché pochissimi di costoro ne sono già in possesso, almeno fino all’andata a regime dei nuovi tirocini formativi.

C’è quindi il rischio che alla fine, anche tramite concorso, i nuovi docenti in ruolo saranno selezionati largamente sulla base di un criterio di anzianità di servizio, analogamente a quanto avviene per le graduatorie provinciali. Di fatto, gran parte dei concorrenti saranno le «seconde file» delle graduatorie, che pur essendo in lista da molti anni, non hanno ancora il punteggio sufficiente per essere chiamati. Della loro qualità sappiamo poco, perché provengono da percorsi formativi eterogenei e, pur avendo esperienza di insegnamento, spesso non sono mai stati valutati. Sappiamo di certo, però, che non sono particolarmente giovani: in media, intorno ai 41 anni.

In conclusione, temiamo che il concorso servirà a stabilizzare molti precari che da tempo lavorano nella scuola - ed è un bene - e a valutarne seriamente la qualità, ma non a portare nelle aule italiane giovani docenti preparati e motivati. Il rischio è che un’altra occasione di rinnovamento del corpo docente vada perduta.
 

Direttore Fondazione Giovanni Agnelli