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Secolo XIX: Tagliano cultura e ricerca perché non costa voti

Come sanità, trasporti e pochi altri servizi, in effetti, cultura e ricerca non sopravvivono se lo Stato non le finanzia: almeno nell'Italia di oggi il mercato non basta

28/02/2009
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Il Secolo XIX

Mauro Barberis

Per la scuola, l'Università, la cultura in genere, qualsiasi soluzione va bene - pubblica, privata, mista - tranne quella che sembra adottata da questo governo: strangolarle finanziariamente. Come sanità, trasporti e pochi altri servizi, in effetti, cultura e ricerca non sopravvivono se lo Stato non le finanzia: almeno nell'Italia di oggi il mercato non basta. Senza il contributo dello Stato questi servizi costerebbero a ognuno di noi un prezzo incomparabilmente più alto di quello che potremmo sopportare. Dunque, senza lo Stato, molte di queste cose semplicemente sparirebbero; se questo ci sembra impossibile è solo perché siamo abituati ad averle sottocosto.

Certo, ogni tanto vengono dei salutari dubbi. Ad esempio, su questo giornale e sul primo e sorprendente numero della nuova serie della rivista il Mulino, ho scritto che, con la progressione dei tagli previsti dalla legge Tremonti, e nonostante le agevolazioni concesse dai decreti Gelmini alle Università"virtuose" - quelle che spendono meno del novanta per cento del loro budget in stipendi - a partire dal taglio di settecento milioni (un dieci per cento della spesa complessiva) previsto per il 2010, non solo tutte le Università sarebbero diventate "viziose", ma avrebbero finito per non avere più soldi sufficienti a pagare gli stipendi.

Lo confesso: anche a me la cosa è parsa così enorme da farmi temere di averla sparata grossa. Allora ne ho discusso con il mio rettore che si sta dannando l'anima per riportare l'Università di Trieste fra quelle "virtuose". Bene - si fa per dire - sia lui, sia altri esperti interpellati, mi hanno confermato che le cose stanno proprio così. Dal 2010, se nulla cambia, mancheranno i soldi per gli stipendi; anche se, per rassicurarci, il mio rettore dice che nessuno Stato, sinora, ha mai lasciato fallire la propria Università. Poiché lo stimo, mi sono astenuto dal rispondere che lo stesso genere di discorso l'ho già sentito una volta: quando un promotore finanziario, qualche anno fa, mi ha venduto diecimila euro di bond argentini, garantendo che «Non si è mai visto uno Stato che non paga i propri debiti».

Capite perché quel galantuomo del Presidente Giorgio Napolitano, che pure aveva difeso gli obbiettivi della riforma Gelmini, nei giorni scorsi è tornato a prendersela contro i «tagli indiscriminati» all'Università e alla ricerca, suscitando le rituali rassicurazioni di vari ministri? Capite perché su tutti i giornali infuria la polemica sulla proposta di Alessandro Baricco: vista la situazione, togliere le sovvenzioni pubbliche al teatro, alla musica classica, alla lirica, e darli alle uniche istituzioni culturali davvero indispensabili, che secondo lo stesso ineffabile Baricco sarebbero la scuola e, pensate un po', la televisione? Il fatto è che siamo proprio a questo punto; in Italia, per la cultura e per la ricerca si potrebbe ripetere il vecchio motto dell'avanspettacolo: bambole, non c'è una lira.

Poi però uno comincia a riflettere e si fa una serie di domande. Finanziare la televisione, già ampiamente foraggiata dal canone e dalla pubblicità, al nobile fine di garantire serate "culturali" che sarebbero regolarmente asfaltate dal Grande Fratello? Ma soprattutto, siamo proprio sicuri che sia la cultura la palla al piede dell'economia di questo Paese, come stanno cercando di farci credere, o non sarà piuttosto l'unico settore dove, tagliando, il governo è sicuro di non perdere voti?

È dei giorni scorsi la notizia che al Comune di Palermo servirebbero duecento milioni di euro per evitare il fallimento: più o meno la cifra che la maggioranza di centrodestra ha buttato per ripianare i debiti del comune di Catania, suscitando le ansie della Lega e dello stesso Tremonti sull'applicabilità al Sud del loro federalismo. Ma allora qual è il vero problema: il teatro, l'Università, o il disastro della pubblica amministrazione?Mauro Barberis è professore ordinario di filosofia del diritto all'Università di Trieste.