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Senza compagno di banco

Le regole della scuola

29/08/2020
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la Repubblica

di Paolo Di Paolo

Gli hai chiesto in prestito un foglio di quaderno, una penna. Lo hai implorato di lasciarti copiare: dai, basta che sposti appena il gomito. Hai scoperto che era più interessante di quanto ti sembrasse sulle prime. È stato il confidente, il consolatore. Quello che ti ha tenuto la mano, o dato fastidio. Ti ha fatto ridere come nessuno, e sbattere fuori dalla porta per eccesso di chiacchiere.

Nel microcosmo di una classe di scuola, è il più prossimo fra i prossimi. Impari da lui, da lei, forse più che dall’intero gruppo, che cosa vuol dire condividere uno spazio. È una sorta di condomino, di coinquilino. Puoi dimenticare i nomi dei compagni di classe, difficilmente dimentichi il volto di un compagno di banco.

Il tramonto del vicinato scolastico è uno di quei cambiamenti quasi impercettibili, che in realtà stravolgono il mondo com’era. È evidente la necessità del banco singolo, benché non sia certa l’efficacia. Ma non è una questione assimilabile a quella del posto vuoto a bordo di un mezzo di trasporto o in una sala cinematografica. E basta, a dimostrarlo, la creativa intuizione di una maestra d’asilo che, in Texas, ha trasformato i banchi monoposto in macchinine colorate, una diversa dall’altra. Macchinine ferme, sì, ma con tanto di finestrini laterali e pneumatici, targhe, fari disegnati sul cartoncino. La maestra Jennifer si è interrogata su come far sentire i più piccoli a proprio agio nonostante il distanziamento. Perché al di là delle gare d’appalto, dei criteri di distribuzione, e delle dichiarazioni dei leader politici fuori fuoco, tanto più quando si tratta di scuola, c’è un aspetto emotivo che sarebbe grave sottovalutare.

Il banco singolo è, naturalmente, solo un dettaglio in un quadro molto complesso.

Mentre perdevamo mesi, mentre lasciavamo indietro, nella scala delle priorità, la riapertura delle scuole, mentre le linee guida si ingarbugliavano diventando una matassa indistricabile, ci sfuggiva la portata della «catastrofe generazionale» — così l’ha definita il segretario dell’Onu António Guterres — provocata dalla sospensione della didattica in presenza. E ora, a due settimane dalla prima, incerta campanella, ci sfugge la delicatezza di questo rientro. Ma a chi interessa? Chi ne sta parlando? Le comprensibili ansie e paure dei docenti, certo, del personale scolastico, degli studenti stessi. Ma non c’è solo la paura: c’è un segno, difficile perfino da individuare, da nominare, che questa interruzione ha lasciato, un disorientamento profondo; forse, rispetto a studenti in difficoltà, a bambini, ragazze e ragazzi che non hanno intorno stimoli culturali, che vivono in realtà sociali depresse e problematiche, c’è un affanno, un autentico disagio, se non addirittura un blocco.

Costruire o ricostruire le piccole comunità scolastiche, recuperare lo spirito di alleanza e di fiducia — fra alunni, fra alunni e insegnanti, fra insegnanti e genitori — in un ambiente che la crisi sanitaria fa percepire comunque insicuro, non sarà facile. E il banco monoposto non aiuterà. Perché, senza effettivo vicinato, sembrerà di stare non a bordo di quella stessa grande arca che la scuola è e dev’essere, ma su piccole zattere malferme e in balia dei flutti — le nostre ansie, l’imprevedibilità del vento di burrasca che continua a soffiare. Senza avere accanto un complice che renda le giornate e i compiti in classe meno pesanti, qualcuno da guardare dritto negli occhi: in un momento di distrazione, di impazienza. Per voglia di capirsi al volo, di ridere, di non sentirsi soli nell’incertezza.


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