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Sergio Cofferati: Il sindacato e la trappola di Berlusconi

Il sindacato e la trappola di Berlusconi di Sergio Cofferati Quelli che seguono sono stralci della nuova introduzione di "A ciascuno il suo mestiere", il libro di Sergio Cofferati, edito da Baldin...

04/10/2002
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Il sindacato e la trappola di Berlusconi
di Sergio Cofferati

Quelli che seguono sono stralci della nuova introduzione di "A ciascuno il suo mestiere", il libro di Sergio Cofferati, edito da Baldini'Castoldi, in libreria nei prossimi giorni.

Subito dopo la vittoria del centrodestra del 2001, in una di quelle conversazioni che spesso si fanno alla fine di una giornata di lavoro, alcuni amici sostenevano che mai Berlusconi avrebbe commesso due volte lo stesso errore, imbarcandosi in uno scontro frontale con il sindacato come era accaduto nel 1994. Che, paradossalmente, proprio i suoi antagonisti di allora avrebbero potuto diventare gli interlocutori più importanti di una maggioranza talmente solida che in Parlamento non aveva da temere nulla, avendo invece molto da guadagnare nel conseguire un consenso sociale più ampio. E che Berlusconi era rimasto troppo scottato per peccare due volte di presunzione nei confronti della società italiana e del sindacato. Io avevo replicato che forse Berlusconi da solo quell'errore non lo avrebbe ripetuto. Ma che aveva contratto troppi impegni con il corpo elettorale che lo aveva sostenuto. Quegli impegni avrebbe, prima o poi, dovuto mantenerli sul serio e questo lo avrebbe inevitabilmente riportato allo scontro diretto con il sindacato.
Non era una previsione difficile da fare, perché in campagna elettorale le sirene del programma del centrodestra avevano lanciato messaggi espliciti in molte direzioni: la scuola, la sanità, il fisco. Ma soprattutto, al convegno della Confindustria di Parma si era messa a punto, in nome, ancora una volta della modernità e della flessibilità, una strategia di attacco ai diritti e alle condizioni contrattuali acquisite. Il futuro presidente del Consiglio era andato a Parma personalmente (per paura che qualcuno non capisse bene) a dichiarare la sua totale sintonia con gli imprenditori. Ancora si parlava di necessità di rivedere il sistema pensionistico sulla base delle stesse richieste che la Confindustria faceva dal '94, ancora si invocava, in nome di una maggiore competitività dell'impresa, un mercato del lavoro, meno "rigido", ossia meno sottoposto ai vincoli contrattuali e di legge.
Non era chiaro su quale punto e con quale intensità si sarebbe attuato il programma del futuro Governo, ma la direzione di marcia, bisogna riconoscerlo, era stata resa esplicita ben prima del voto del 2001.
I miei interlocutori quella sera replicarono che se Berlusconi avesse davvero imboccato la strada che io paventavo avrebbe finito per fare il gioco dell'opposizione. Si sarebbe, ancora una volta, ricompattato il sindacato e forse rinvigorito un centrosinistra ancora depresso per la sconfitta elettorale subita. Ma anche su questo punto avevo meno speranze di loro. Anzi, la mia visione delle cose era totalmente improntata a un diffuso pessimismo. No, al vertice di Confindustria erano arrivate persone che esplicitamente chiedevano di considerare superata l'esperienza della concertazione e che richiamavano l'accordo separato del 1984 come l'esempio positivo, e da ripetere, di divisione del sindacato in due blocchi: gli antagonisti (secondo loro, la Cgil) con l'opposizione e i collaborativi (Cisl e Uil) con il Governo. Qualsiasi tema avessero scelto di agitare, lo avrebbero fatto con questo primario obiettivo. Non era tanto importante il merito delle questioni, o i risultati conseguiti, quanto piuttosto riuscire a incrinare il fronte sindacale che nel 1994, invece, era rimasto unito. Questo era l'obiettivo esplicitamente dichiarato e sperimentato a Milano qualche semestre prima. A questo scopo si potevano sacrificare alcuni problemi seri di competitività del Paese e anche, in alcuni casi, la ragionevolezza e il buon senso. Fino a sostenere, ad esempio, che la riduzione di un diritto acquisito può essere fatta per via sperimentale o che licenziare serve ad assumere e quindi ad aumentare l'occupazione. Dichiarazioni che, se non nascondessero un insopportabile intento discriminatorio, farebbero semplicemente ridere, un po' come dire che la dieta si fa per poter mangiare di più.
Mi toccò anche, quella sera nel mio ufficio, spiegare che non era da darsi per scontata l'unità del sindacato, perché i grandi demagoghi che arrivavano a Palazzo Chigi assieme ai loro colleghi di viale dell'Astronomia stavano evocando funzioni nuove per il sindacato, di gestione del mercato del lavoro e dei servizi (accompagnate da nuove forme di finanziamento) alle quali Cisl e Uil non avrebbero potuto restare indifferenti. Senza pensare poi che il centrosinistra, sconfitto nel momento in cui, giustamente, voleva consolidarsi agli occhi dell'opinione pubblica come forza di governo e di buon governo, non avrebbe reagito rafforzando la sua capacità di opposizione, ma, al contrario, accentuando (o cercando di accentuare) una immagine di forza responsabile, dialogante, che vuole rappresentare i bisogni del Paese e non di una parte sola. E che avrebbero finito (i partiti dell'Ulivo e i DS in testa) con il ricercare spazi per trattative e accordi con il Governo di centrodestra sulle materie del suo programma, invece che rilanciare in fretta un programma alternativo, basato su chiare discriminanti di valore e di contenuto, tra destra e sinistra. In questo cadendo pienamente, le forze del centrosinistra, nella trappola berlusconiana: mentre lui continua a dire che la sinistra in Italia non è ancora democratica, loro si affanneranno a dimostrare di esserlo (e a inventarsi comportamenti bipartizan, opposizione costruttiva in Parlamento, rispetto delle regole ecc.) e il centrodestra attuerà il suo programma nel modo più rapido e unilaterale, occupando tutti i posti e gli spazi che troverà. No, saremmo stati ancora una volta da soli di fronte al centrodestra. Da soli a opporci alle azioni del Governo contro le conquiste sociali degli ultimi anni, anche questa volta, come nel '94.
Non riuscii a convincerne molti quella sera di giugno. Anche perché spesso all'analisi fredda della realtà ciascuno preferisce anteporre le proprie aspettative o le proprie illusioni. Ma nei mesi successivi sono tornati in molti a dirmi che avevo visto giusto.
(...)

Sposando il programma della Confindustria, il secondo governo Berlusconi ha scelto l'innovazione a una dimensione, tutta centrata sugli interessi dell'impresa. Non sono le riforme necessarie al Paese quelle che il Governo vuole varare, ma quelle necessarie alle imprese. O, meglio, quelle volute da Confindustria. Oltre alle riforme che fanno comodo a Berlusconi stesso e ai suoi fedelissimi, ma che non sono materia di questa riflessione. La sintesi di quello che è accaduto dopo un anno e qualche mese di governo di centrodestra è tutta in questa verità difficile da contestare. Una scelta di campo netta e senza mediazioni del Governo e dei partiti della maggioranza nei confronti degli interessi delle imprese industriali, così come li rappresenta Confindustria. Dopo di che, se ne sono sentite di tutti i colori a proposito di un sindacato che rinuncia a negoziare, di un sindacato che fa politica, per non parlare delle volgari accuse di contiguità tra le lotte sindacali e il terrorismo. Ma la verità è più forte (e più semplice) delle calunnie. È difficile fare accordi ai tavoli di concertazione se l'esecutivo è schierato sulle posizioni delle imprese al punto che non si distinguono mai le voci dei dirigenti di Confindustria da quelle dei dirigenti del ministero del Lavoro. Anzi, è impossibile fare accordi in cui l'unica contropartita è solo quella di partecipare a quelle trattative apparenti. Non è un problema di natura deontologica o esistenziale: "Il sindacato deve, per sua stessa funzione, partecipare sempre ai confronti negoziali e ricercare sempre l'accordo senza pregiudizi"... e tutte quelle vuote banalità che ancora si ripetono. Come se la Cgil non avesse dato prova negli ultimi vent'anni di sapersi fare carico anche di situazioni difficili e di vere emergenze del Paese nell'accettare sacrifici pesanti per i propri rappresentati. Ma un conto è farlo in una prospettiva di miglioramento e crescita (dell'economia, dell'occupazione, dei diritti, delle condizioni di lavoro, del ruolo della rappresentanza, ecc.) un altro conto (per noi inaccettabile) è fare accordi di rinuncia pur di restare protagonisti di un sistema di relazioni industriali tanto più assurto a vuoto simbolo quanto più è privo di funzioni reali di mediazione fra interessi diversi. Pierre Carniti, prestigioso leader sindacale del recente passato, avrebbe stroncato queste fanfaluche dicendo: "Tutto si può chiedere a dei soldati, tranne che di sedersi sulla propria baionetta", come ci ripeteva spesso. Adesso ci chiedono di farlo e di riconoscere che questa è un'innovazione necessaria. Mi sembra, onestamente, un tributo troppo indecente per organizzazioni che hanno la storia e la cultura della Cgil. Aggiungo che quando un sindacalista considera la sua presenza "a corte" un fatto importante in sé sta sbagliando mestiere.

Se c'è materia negoziale sul tavolo sono sempre stato abituato a non alzarmi prima di aver trovato soluzioni utili per un accordo. Ma sono in grado di distinguere rapidamente il fumo della propaganda sparso a piene mani, dall'arrosto che nessuno ha intenzione di cucinare. Forse sono troppo vecchio del mestiere sindacale (o del ruolo che occupo) per consolarmi ascoltando le rassicurazioni del Cavaliere più ricco del Paese. Sono sopportabili la prima volta che uno le ascolta. Poi se ne coglie subito la strumentalità, si capisce che sono al più tentativi di distrarre l'attenzione dell'interlocutore dalla sostanza del confronto. E che la sostanza del contendere è quasi sempre peggiore (in quantità e qualità) delle anticipazioni della vigilia. In questi casi il mestiere sindacale consiglia di tenere in nessun conto le rassicurazioni: più sono ripetute più risulteranno false. Non vedo che tipo di ginnastica contrattuale si dovrebbe fare: quale pantomima generale alle spalle dei problemi veri del Paese. Se fosse solo finzione, basterebbe astenersene e lasciare il palcoscenico ai protagonisti della rappresentazione e agli aspiranti tali (e alle tante "spalle" del primo attore). Ma non è finzione. È in atto un disegno di arretramento complessivo delle condizioni di vita (diritti, dignità e, di recente, reddito) dei lavoratori di questo Paese in tutti i settori. Oltre a un cambiamento delle caratteristiche della convivenza e del "patto sociale" tra cittadini su fisco, istruzione, sanità, rapporto tra governo centrale e comunità locali. Di fronte a tutto questo non si possono solo abbandonare i finti tavoli della concertazione o del cosiddetto "dialogo sociale europeo" nella versione dialettale che il Governo italiano ci ha proposto. Non è sufficiente chiamarsi fuori e neppure limitarsi a resistere. Occorre mettere in campo una controffensiva politica e sociale. In Parlamento e nelle piazze, come si dice. Che difenda gli interessi dei ceti più deboli ma indichi anche i bisogni veri di innovazione e riforma. Che sia in grado di smascherare il trucco di chi governa: gli interessi che lui difende non sono gli interessi generali del Paese ma i suoi e quelli delle forze economiche che lo sostengono. A me pare che tutto questo sia così evidente che la sinistra dovrebbe prenderne atto in fretta e smettere di pensare che siamo nella normale dialettica democratica tra destra e sinistra perché non è così. Siamo forse in una normale dialettica aziendale tra soci di maggioranza che decidono e soci di minoranza che subiscono. Ma la democrazia moderna che abbiamo costruito ed ereditato dai padri nobili (di tutti gli schieramenti) è un'altra cosa. Ha un'altra dignità. E, in ogni caso, anche se fossimo in un normale pur se aspro confronto tra valori della destra e valori della sinistra, cosa della quale è lecito dubitare, si dovrebbe rispondere, per parte dell'Ulivo, rafforzando i valori della sinistra e non cercando ogni occasione per annacquarli.
(...)
E veniamo alla flessibilità. Anzi, alla fola della flessibilità. Ho già tentato di spiegare, in un capitolo del libro, come ormai questa parola abbia assunto significati tanto diversi fra loro da diventare quasi inusabile. E quali tipi di flessibilità sono disponibile ad approfondire e negoziare, sia in materia retributiva che di condizioni e rapporti di lavoro. Ma Confindustria continua a confondere flessibilità con precariato, incertezza e peggioramento delle condizioni. Così a me non resta che oppormi con tutte le forze e le iniziative a questa cultura della flessibilità unidimensionale e attrezzare il sindacato a difendere la situazione esistente. Consapevole in questo che si diffonderà una reazione che irrigidisce il sistema e finisce per rendere più difficili anche quelle innovazioni che considero positive. Ma è un fatto ineluttabile: quando si ha un interlocutore che vuole, ad esempio, sopprimere il sistema della previdenza pubblica è impossibile che dalla trattativa esca una riforma in grado di aggiungere efficacemente il secondo pilastro di una previdenza integrativa che ingloba il Tfr a quello fondamentale della pubblica. Un interlocutore sindacale estremista, come spesso è Confindustria nelle trattative, rende difficile l'esercizio della cultura riformista alla quale da sempre mi sento di appartenere. Il tavolo risulta fin dall'inizio falsato perché, qualsiasi mediazione venga proposta, si sa che è intesa diversamente dall'interlocutore che ha un altro diverso obiettivo (più o meno reso esplicito). In questi casi credo che il mestiere del sindacalista non consenta mistificazioni di sorta. Se il tavolo sindacale è ambiguo è meglio abbandonarlo perché è difficile che divenga produttivo e anche se alla fine genera un accordo sarà un accordo poco condiviso e quindi più difficile da applicare. È necessario che chi si siede a un tavolo di trattativa, come in tutti i negoziati, condivida a pieno il tema su cui si debbono svolgere i confronti: la materia in oggetto. Altrimenti è un pasticcio. Non capisco come colleghi molto esperti e accorti non condividano questo principio fondamentale del nostro mestiere e continuino a sostenere che il sindacalista deve trattare comunque, a tutte le condizioni. Non ha senso: a nessuno si può chiedere di esercitare un mestiere (o una funzione) comunque, come fine deontologico in sé. Non ha senso chiederlo a un mediatore di frutta o di case, tanto meno a un rappresentante di persone.