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«Si danno da fare e aiutano i ragazzi Il mio seguiva le classi anche in gita»

Marcello D’Orta, maestro-scrittore di Io speriamo che me la cavo

14/03/2011
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Corriere della sera

ROMA — «Io dico che i bidelli non sono mai troppi, anzi, vado controcorrente e sostengo che ce ne vorrebbero di più» ribatte Marcello D’Orta, maestro-scrittore di Io speriamo che me la cavo. «In una scuola dove oggi non si rispetta nessuno, nè il preside nè i professori, che erano le figure di prestigio, figuriamoci il personale non docente. Viene visto come l’ultima ruota del carro, e invece spesso si fanno un coso così, poveracci» . Quando insegnava lui, per vent’anni, tra i Settanta e i Novanta, «certi bidelli erano dei lazzaroni, qualcuno ce l’aveva pure messo la camorra e la ramanzina da un orecchio gli entrava e dall’altro gli usciva. Ma tanti si meritavano il doppio dello stipendio. Non erano più solo i netturbini scolastici, ma un punto di riferimento per gli studenti. E a noi insegnanti ci davano una grossa mano» . Come Carminiello «che la porta della classe era scassata, senza più cardini, appoggiata al muro e lui mi disse: "Dottò, così non può stare, è pericolosa". Se avessimo seguito la burocrazia, tra domande e autorizzazioni, per ripararla ci sarebbe voluto un anno. Ma Carminiello era pure un po’ falegname e la aggiustò lui. Se dovevo assentarmi per qualche minuto, gli potevo affidare la classe meglio che a un collega» . Poi ci fu Luigi, detto Gigino. «Lo portavo con me in gita scolastica. Da solo con trenta, quaranta ragazzini difficili che mi scappavano di qua e di là, non avrei saputo come fare. Lui invece si faceva rispettare. Però era anche amico degli studenti, gli suonava pure la chitarra» . Giovanna Cavalli