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«Sul diritto allo studio difendo la mia proposta»

Francesco Profumo Il ministro dell'Istruzione: «La cosa peggiore è promettere un sostegno e poi non erogarlo Ma sono pronto a incontrare gli studenti»

08/02/2013
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l'Unità

LUCA LANDÒ L'accusa proprio non gli va giù. Perché il decreto della discordia, quello sul diritto allo studio contestato con forza dagli studenti, di leghista non ha proprio nulla. Altro che Italia a due velocità, con un nord che corre e un sud che arranca. L'obiettivo, spiega a l'Unità Francesco Profumo, ministro dell'Università e della Ricerca oltre che dell'Istruzione, era e resta esattamente il contrario: «Mettere tutti nelle stesse condizioni. E per farlo c'era un solo modo: regole trasparenti e uguali per tutti». Peccato che questo sia proprio quello che gli studenti le contestano. «Eppure oggi in Italia vige un inaccettabile fai da te locale, con il risultato che i diritti e le opportunità variano di Regione in Regione: vogliamo lasciare le cose in questo modo? Ho la sensazione che le associazioni studentesche non abbiano capito lo spirito che anima il decreto. Per questo li vorrei incontrare: a voce ci si intende meglio». Scusi, ma nella prima bozza del decreto si parlava proprio della divisione in tre macro-aree regionali con tre diverse fasce di reddito per accedere alle borse di studio. In pratica un ragazzo del Sud avrebbe potuto chiedere una borsa solo se il suo reddito Isee, quello che tiene conto anche della situazione familiare, sarà inferiore ai 15 mila euro, mentre uno del Nord avrebbe potuto fare domanda anche con un Isee di 21mila. Non è strano che un diritto previsto dalla Costituzione, quello allo studio, abbia una diversa applicazione a seconda di dove si nasce osi vive? «Ma questo è proprio quello che accade oggi in Italia: i criteri per assegnare lo borse di studio variano da una Regione all'altra. In Abruzzo puoi avere una borsa di studio solo se hai un Isee inferiore a 17.609 euro mentre in Veneto puoi arrivare a 20.125. E non c'entra la differenza tra nord e sud: in Liguria, proprio come in Calabria, non devi superare i 15.094 euro, se però passi lo stretto scopri che in Sicilia il limite sale a 20.124 come in Veneto. Mi creda, è un caos». Sarà, ma la differenza in macroaree crea e certifica un Paese a due velocità, anzi a tre. «Ma le macro-aree nel decreto non ci sono più: c'è un reddito Isee che è stato fissato per tutte le regioni intorno ai 18 mila euro, che è la media dei minimi e massimi che si registrano oggi. E poi verrà data alle singole Regioni la possibilità di aumentare o calare del 15% rispetto a quel livello, secondo regole che vanno ancora concordate». Quello che lei dice è diverso da quello che sostengono gli studenti: avete modificato il decreto? «Il decreto è in discussione e in elaborazione con gli studenti e le regioni da un anno e mezzo. Questa è l'ultima versione che ovviamente tiene conto delle sollecitazioni e dei commenti che sono arrivate e arrivano. L'obbiettivo, lo ripeto, è stabilire delle regole a cui tutti dovranno attenersi, mentre adesso ognuno fa quello che vuole. E poi vogliamo impedire che una Regione prometta tanto e mantenga poco». È un'accusa alle Regioni? «Niente affatto. Però dobbiamo tutti essere consapevoli che alzare o abbassare il livello di reddito Isee ha degli effetti ben precisi, perché determina il numero di studenti che hanno diritto a una borsa di studio: più alto il reddito, più elevato il numero di studenti. E qui arriva la madre di tutte le domande: una Regione che aumenta il numero di studenti idonei, riuscirà davvero a pagare le borse di studio promesse? Perché se così non fosse, si avrebbero due effetti negativi. Il primo è che si crea una inaccettabile illusione: gli studenti vengono dichiarati idonei ma poi non vedono un euro. La seconda è legata la fatto che gli studenti idonei non pagano le tasse universitarie: se il loro numero è stato elevato senza motivo, creo un danno economico agli atenei». Se riduce il numero degli aventi diritto il danno però ricade sugli studenti, non crede? «È quello che accade oggi. Per questo vogliamo regole trasparenti che permettano agli studenti di avere realmente quello a cui hanno diritto. E il modo per farlo è un sistema variabile ma con regole fisse. Le regioni potranno benissimo salire o scendere da quel livello di riferimento e quindi aumentare o ridurre il numero degli studenti che hanno diritto a una borsa: il punto è stabilire come. Il decreto vuole definire delle regole di riferimento condivise». Quali sono queste regole? «Abbiamo deciso di rinviare ogni decisione alla prossima Conferenza Stato-Regioni che si terrà il 21 febbraio. E questo proprio per arrivare a una scelta che vada bene a tutti: studenti, regioni e ministero». Lei ha una proposta? «Un buon punto di partenza sarebbe tenere conto di quello che è stato fatto in precedenza. Faccio un esempio: una Regione che nei due anni precedenti ha erogato effettivamente 1'80 % delle borse promesse avrebbe ragione a chiedere di allargare il numero degli studenti e quindi aumentare il reddito Isee; chi invece ha erogato solo il 60% delle borse è inutile che continui a illudere gli studenti: resti nella fascia più bassa, anche se non per sempre. Quando sarà riuscito a soddisfare l'80% delle borse potrà chiedere anche lui di aumentare il tetto del reddito Isee. Ma ripeto è solo una proposta: venendo da un mondo scientifico resto convinto che vadano premiate le idee migliori, non le opinioni personali». Una delle critiche più accese al decreto riguarda il numero delle borse, che calerebbe. «Capisco il clima elettorale che accende gli animi ma la realtà è un'altra. Nel biennio 2011-2012 avevamo 171 mila studenti idonei e sono state erogate 114 mila borse di studio, cioé il 67%, con un investimento di 384 milioni di euro. Con questo decreto il numero delle borse salirà a 135-140 mila, cioé 20-25 mila in più, con una copertura prevista tra i 450 e i 460 milioni». Cosa farà dopo le elezioni? «Tornerò al Politecnico di Torino. Mi ero messo in aspettativa quando sono stato nominato al Cnr, anche se dopo solo tre mesi sono venuto qui». Come rettore e come ministro: di cosa ha bisogno l'università? «Di tre cose. La prima è una programmazione pluriennale, con uno sguardo lungo che comprenda le strategie e il futuro del Paese: dove vogliamo andare, quali sono i settori strategici su cui puntare. Il secondo è una riorganizzazione del sistema universitario: ci sono sedi decentrate che oggi forse non hanno più ragion d'essere. Così come, al contrario, si potrebbe pensare a una sorta di federazione tra alcuni atenei per coordinare gli sforzi e unire le risorse. Prendiamo Berkeley negli Stati Uniti: è una grandissima università che fa parte di un sistema ancora più grande che si chiama "University of California" ed è formata da nove campus di qualità collegati tra loro come Los Angeles, San Francisco, Santa Barbara e Berkeley appunto. Ognuno balla da solo ma tutti lavorano insieme». La terza mossa? «Investire sul personale. Negli ultimi anni abbiamo perso diecimila docenti, passando da 60.000 a 50.000 che è un numero troppo basso. La forza delle università sono le persone, non dimentichiamolo». Visto che parla di investimenti vorrei fare una domanda all'ex presidente del Cnr prima che al ministro: davvero l'Italia può pensare di uscire dalla crisi senza investire nella ricerca? «Se guardo il mondo con gli occhiali di dieci anni fa le direi che l'Italia investe troppo poco, è evidente. Se però indosso gli occhiali di oggi, vedo un mondo diverso. Innanzitutto mi accorgerei che la ricerca non ha bisogno solo di risorse, ma anche di certezze. Un finanziamento che forse arriva e forse no, una pratica che prima parte poi si ferma con i tempi che si allungano senza mai una fine: questo sì che fa male alla ricerca. Ma c'è un altro punto, forse il più importante». Quale? «Oggi non ci sono più solo gli investimenti nazionali, ci sono anche quelli europei. E parlare dell'Italia dimenticando l'Europa è un errore grave. Per ogni euro che diamo all'Unione europea, perché ne facciamo parte, ne riprendiamo solo 60 centesimi: perché non li chiediamo o perché non presentiamo progetti che meritano di essere finanziati. Ci sono Paesi che ottengono molto più di quello che danno. È su questo che dobbiamo riflettere, anzi investire. Ce la possiamo fare, ne sono convinto. Ma per farlo dobbiamo cambiare occhiali». «Creeremo un sistema più affidabile con regole trasparenti e condivise Oggi vige il fai-da-te» «Ma quali tagli? Crescerà la copertura e le borse alla fine aumenteranno di 20-25mila unità»