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Sulla torre degli immigrati

Sono scesi dopo un mese ma la protesta degli immigrati, a Milano come a Brescia, non è finita Perché riguarda una nuova questione sociale

03/12/2010
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l'Unità

Luigi Manconi

Cara Susanna Camusso, tra tanti arrampicatori sui tetti (Antonello Venditti ben due volte, su quello della facoltà di Architettura di Roma), non c’è stato uno che abbia deciso di salire sulla torre della ex Carlo Erba di via Imbonati, a Milano. In quello spazio ristretto, per 27 lunghi giorni, hanno vissuto cinque stranieri. Ieri hanno dovuto sospendere la loro protesta ed è assai probabile che vengano espulsi dal nostro Paese. La loro azione, come quella intrapresa a Brescia, aveva un obiettivo: il rilascio del permesso di soggiorno per quanti non hanno ottenuto la regolarizzazione a seguito di comportamenti illegali dei propri datori di lavoro. Sullo sfondo, c’è una realtà di abusi e truffe, di discriminazioni e di sperequazioni, di speranze deluse e di aspettative frustrate. Quelle vicende mostrano come la “sanatoria” del settembre del 2009, oltre a essere di dubbia costituzionalità (discrimina in base al tipo di attività lavorativa), ha consentito che su individui già costretti a una vita marginale gravassero meccanismi di pressione e ricatto ai limiti dell’estorsione. L’esito è stato che migliaia di stranieri hanno versato, di tasca propria, cinquecento euro più altro denaro destinato ad agevolare le pratiche, in gran parte dei casi mai giunte a buon fine. Per una volta, il danno e la beffa, sono stati perfettamente contestuali, per molti versi prevedibili, spesso pianificati. Si è trattato, insomma, di una vera e propria soperchieria ai danni di chi si trovava in una condizione di estrema debolezza, nelle zone in ombra del mercato del lavoro, privo di potere contrattuale e di garanzie legali. Quelli saliti sulla gru di Brescia e sulla torre della ex Carlo Erba sono le vittime ultime di un atto di prepotenza statuale, che produce e riproduce discriminazione per via istituzionale. I sindacati hanno seguito la vicenda che si manifesta drammaticamente in quegli uomini inerpicati a una trentina di metri dal suolo ma che riguarda migliaia di persone. Di lavoratori. Si deve trovare una soluzione intelligente, capace di disinnescare un meccanismo che rischia di portare tanti - che si battono per conquistare legalità e visibilità – in una condizione di irregolarità e di occultamento nelle pieghe più oscure del mercato del lavoro e della vita urbana. Cara Susanna Camusso, mi auguro che i sindacati siano in grado di impedire l’espulsione di chi, a proprio rischio, ha fatto emergere una ingiustizia tanto oltraggiosa; e sappiano trovare una soluzione per chi non è stato regolarizzato. Innanzitutto per una ragione di diritto, ma non solo. Tra gli iscritti alla Cgil sono 380 mila gli stranieri e moltissimi altri aderiscono a diverse organizzazioni sindacali. Questo conferma inequivocabilmente che quella dell’immigrazione non è più – se mai lo è stata – una questione di “buoni sentimenti” e nemmeno di solidarietà. È un pezzo, piuttosto, della questione sociale complessiva: e della questione sociale al tempo della nuova Grande Crisi. Per quest’ultimo motivo, sarebbe un grave errore ritenere che quei cinque stranieri sulla torre abbiano rappresentato solo un elemento periferico e residuale, da trattare con sufficienza quasi fossero altrettanti “casi umani”. Si tratta, invece, del “fattore umano”di una contraddizione profonda che registra il mercato del lavoro in presenza di grandi trasformazioni nazionali e sovranazionali. Guai, perciò, a pensare che “ben altri” siano i veri problemi. No, non è così: quei lavoratori sono, per un verso, i destinatari finali di un provvedimento di legge discriminatorio e irrazionale; e, per altro verso, costituiscono la conferma dei processi di mutamento del senso comune e della mentalità condivisa nel nostro paese. Il loro isolamento, l’imbarazzo che creano, la distanza incalcolabile tra loro e la città, sono altrettanti segnali di un radicale cambiamento in atto nella percezione collettiva della natura e del senso del legame sociale. Un numero crescente di italiani ritiene che, per sopravvivere alle intemperie (economiche e sociali) sia necessario, o comunque inevitabile, escludere, selezionare, discriminare. Non sono razzisti, quegli italiani che la pensano così. Sono spaventati. Anche per questo motivo, sarebbe stato utile un gesto, un messaggio, un’azione. Che so? Ritrovarsi sotto quella torre della ex Carlo Erba (attenzione: ho detto sotto, che c’ho un’età). È ormai troppo tardi?


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